Antonietta Pintòr Raicich Ricordi Familiari

Da: Marino Raicich : intellettuale di frontiera / [premessa di Giovanni Ferrara Salute ; bibliografia degli scritti di Marino Raicich di Monica Galfré]. – Firenze : Olschki, 2000. – XI, 155 p., [3] c. di tav. ; 24 cm. – (Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux, Studi ; 0008)

Antonietta Pintòr Raicich
Ricordi familiari

Le relazioni pubblicate in questo volume esaminano autorevolmente e con sentimento di affetto alcuni significativi aspetti della costante attività pubblica di Marino Raicich. Questa mia vuoi essere soltanto una testimonianza di quello che i ventisei anni di vita comune hanno significato per me: in tempi di bilancio, naturali nella mia non più giovane età, i più importanti della vita. Gli sono riconoscente. Una vita non sempre facile per nessuno dei due, ma sempre vissuta intensamente; anche durante il periodo di dolorosa separazione, in cui però l’affetto che ci aveva fino ad allora unito ci doveva vedere presto ricominciare insieme il nostro cammino con un legame più forte e maturo. Fiumano di nascita, la sua famiglia era originaria di Volosca, oggi un grazioso villaggio turistico col suo minuscolo porto nei pressi di Abbazia, ma allora distretto notarile. Ho visto a Volosca in occasione di una nostra gita in Jugoslavia negli anni Ottanta la casetta Raicich azzurra col suo caratteristico portico istriano. Così ho visto anche la casa di Fiume. Marino la andava cercando e via via che ci si avvicinava notavo che accelerava il passo (unico segno emotivo) temendo forse che non ci fosse più. Mi aveva indicato la sua stanza di ragazzo. Voleva entrare, ma la timidezza lo fermò. Una famiglia fin da quell’epoca di solide tradizioni marinare. Marino mi raccontava del certificato di studi nautici, di circa duecento anni fa, di un suo trisavolo. Abbiamo trovato tra le carte familiari la piantina di una baia, acquistata sempre a Volosca dal nonno paterno Sennen, curiosamente attigua ad una proprietà dell’arciduca Giuseppe. Ho provato invidia, non tanto per la `storica’ vicinanza, quanto perché riviveva in me l’origine isolana e la mia natura nutrita, fin dai primi anni di vita, di mare, bianchissime spiagge africane, vento, sole. Povera Sardegna sempre più cementificata! Marino negava di avere radici e mi recitava ostentando un certo distacco «[…] Io, la mia patria, or è dove si vive […]». Che fortuna per me che Pascoli non fosse né greco né latino. In realtà, col passare degli anni, le andava ritrovando o forse le aveva sempre sentite, sempre però tenendole serrate in quel-la che io chiamavo la sua «corazza austro-ungarica», insieme con i suoi sentimenti più profondi, con le ferite e le amarezze che qualche parola dura, a volte inavvertitamente rivoltagli, procuravano ad una acutissima sensibilità. Perfino la radice di una cycas portata a Fiume dall’India nel 1902 dal nonno paterno, amorevolmente curata per lunghi anni e trasferita dalla Jugoslavia in Italia nel 1949 insieme ad una miriade di incredibili bagagli, malamente vivacchiante poi in un balcone della casa fiorentina, doveva costituire un piccolo segno della natura di Marino. La palmetta ha ormai novantasette anni e prospera tranquilla nel nostro giardinetto romano. A lui è sopravvissuta e so-pravviverà certo anche a me. Solo nel testamento scritto due anni prima della morte tra le pagine dei suoi `quadernoni’ prediletti zeppi di appunti, progetti di lavoro, riflessioni e suggerimenti per ricerche, note critiche, copie di articoli che si riferivano ai suoi studi – 2000 pagine fitte di una regolarissima scrittura di non facile lettura – esce allo scoperto il suo vero essere. Parole semplici. «[…] Posso solo dire a quanti hanno provato per me affetto, amicizia, amore che anch’io, al di là delle apparenze, non ho ignorato questi sentimenti (una sola cosa ho ignorato, l’odio e l’invidia), anzi li ho vissuti fortemente anche se non sono riuscito quasi mai ad esprimerli, ad esternarli (per pudore o per aridità comunicativa)». Penso a quanto deve avere sofferto. Ho riletto recentemente un affettuoso ricordo scritto per la sua morte da Antonio La Penna: Marino Raicich. Una passione schiva. Neanche le parole finali del testamento tradiscono nella loro spontaneità l’istintiva riservatezza della persona: «[…] non mi resta che stringere in un abbraccio d’addio A. e salutare, allontanandomi, con la mano, quanti mi hanno voluto bene e mi hanno aiutato a vivere, mestiere assai difficile. MR». * * * La sua infanzia e la sua adolescenza non erano state serene, segnate dalla tristezza velata di un ambiente domestico dominato dalla malattia nervosa del padre. Già studente di filologia classica all’Università di Gottinga, lui non poté purtroppo portare a termine i suoi studi prediletti. Agli stessi delicati anni dell’adolescenza risale la sua rigorosa formazione cattolica, i cui segni, anche dopo l’abbandono della fede religiosa a diciotto anni, dovevano rimanere, per sua stessa testimonianza scritta, profondamente incisi in lui per tutto il resto della vita. Nel gennaio del 1944, a diciotto anni, Marino lasciava Fiume e giungeva dopo un viaggio avventuroso a Pisa. Allievo della Scuola Normale Superiore dove ebbe a maestri Delio Cantimori, Augusto Mancini, Luigi Russo, sosteneva la tesi di perfezionamento in filologia classica con Giorgio Pasquali. Vennero poi gli anni dell’insegnamento di latino e greco nei licei classici dal 1954 al 1968, l’ultimo decennio al liceo Galileo di Firenze. Gli anni 1968-1979 furono gli anni dell’impegno politico. Parlamentare del Pci alla Camera dei deputati, Marino vi svolse continuativamente la sua attività come membro della Commissione istruzione. Risale infine al 1980 la nomina a direttore del Gabinetto Vieusseux, carica mantenuta fino al 1984. Ho conosciuto Marino, quando da alcuni anni lavoravo alla biblioteca del-la Camera. Era uno dei pochi assidui frequentatori della biblioteca: quando il lavoro parlamentare e quello contemporaneo per il partito glielo consentiva-no. Mi aveva colpito la sua figura austera che mi faceva pensare chissà perché a un pastore protestante. Vestiva sempre lo stesso abito grigio scuro (non credo ne avesse allora altri se è vero, come mi dicevano a Firenze, che lo avevano esortato a comprarsi un abito nuovo dopo la sua elezione), lo stesso pullover giro collo grigio fumo di Londra da cui spuntava il bordo del colletto bianco (?) della camicia. Classico intellettuale trasandato, nonostante il vestito nuovo, che violava oltretutto l’obbligo della cravatta. Nacque presto tra noi un’amicizia cordiale, nel rispetto dei propri ruoli; così ci capitava qualche volta che ci fermassimo in sala di consultazione a par-lare di cose di comune interesse: il gusto per la musica, che continuerà sempre nel corso degli anni, per un certo tipo di cinema; la conoscenza comune di alcuni amici. Marino attraversava allora un periodo di forte depressione per un falli-mento matrimoniale. Forse la mia presenza lo distraeva un po’: sorrideva, lui sempre così serio; ma la solitudine traspariva dal suo atteggiamento apparentemente distaccato. Si tuffava a fondo nello studio. Un suo saggio, da lui considerato uno dei migliori, era stato scritto proprio in quel periodo. Era orgoglioso, lo confessava, ed anche un po’ narcisista. Su quest’ultimo suo aspetto ironizzavo amichevolmente. Una volta, incontrandolo nel «corridoio della posta», gli dissi en passant, dandogli rispettosamente del Lei, che era arrivato il volume di Tullio De Mauro e che il suo nome figurava nell’indice. Marino aveva sorriso, preso un po’ di contropiede. Giuseppe Recuperati, in un suo saggio sulla politica scolastica, pubblicato nella einaudiana Storia dell’Italia repubblicana parla di lui come di uno dei cervelli più lucidi e aristocratici del Pci. Lucidi, commentava Marino con un amico, (forse per la calvizie), aristocratici (i miei avi saranno stati pastori di Croazia o pescatori uscocchi). E ne sorrideva, ammettendo però contemporaneamente che la sua piccola vanitas ne era stata alimentata. Ci sposammo presto. Adulti tutti e due, ognuno con le proprie esperienze alle spalle. Io, non so dire quanto matura, coinvolta in passato in un brevissimo arco di anni, appena dodicenne, in gravi sciagure familiari, traumi bellici, studi universitari compiuti quando avevo già cominciato a lavorare. Lui, con un passato doloroso che ancora gli pesava molto e lo rendeva quasi timoroso di potere ricadere nelle stesse sofferenze che ancora bruciavano («una vita d’inferno» così definiva il suo recente passato familiare). Negli ultimi anni di vita da `pensionato’, dopo un primissimo momento di smarrimento, riprendeva con la passione dello studioso che sempre lo aveva caratterizzato, l’attività di ricerca: un programma fitto di impegni, non sempre portati a termine perché troppi o troppo impegnativi. In una lettera del 1990 al caro amico Lallo Russo («Belfagor»: una collaborazione trentennale) ne faceva l’elenco. Capitava qualche volta che domandassi a che punto era con un determinato lavoro: mi diceva, citando Momigliano, che la ricerca non finisce mai; spesso mi ripeteva anche, di se stesso, con aria sorniona, che lavorava fin. ewig. Oggi sorrido con tristezza ricordando quel suo motto domestico dove l’ironia lasciava spazio a un pizzico di autocompiacimento. In quella lettera aggiungeva però come il suo impegno non bastasse a soffocare l’amarezza per la situazione politica e culturale; come fosse amaro il crollo del comunismo in Europa, in Italia, per un liberal-comunista come lui; e come non gli pareva ci fossero speranze per la sua generazione. «A volte» continuava «mi risento dentro le parole che leggevo da bambino nell’atrio della scuola dal bollettino della vittoria: “Risalgono senza speranza le valli che avevano disceso con tanta orgogliosa sicurezza”. E il ritratto oggi del Pci sicché non resta che dire con Catullo “Et quod vides perisse, perditum ducas”. Ma è amaro, ed è amarissimo essere del tutto impotenti ad arrestare la china». Gravemente malato da un anno – il fumo, quel catrame accumulato in tanto tempo nei suoi bronchi – negli ultimi mesi costretto a casa con l’ossigeno, aveva continuato a lavorare aiutato dall’affettuosa assidua collaborazione dell’amica Barbara Cartocci, sempre pronta a fornirgli materiale bibliografico e documentario. Vinto ormai dalla malattia che inesorabilmente lo andava distruggendo, era riuscito a correggere le ultime bozze del suo secondo volume di saggi e mi aveva detto: «verrà bene; chissà se lo vedrò». Non ha fatto in tempo. La sua morte, anche se attesa, è arrivata improvvisamente da un giorno all’altro. Insieme a me e a mia sorella, che con la sua abituale generosità lo aveva assistito durante la malattia, c’era l’amica Simonetta. Era lucido, ma il suo volto era trasfigurato, i suoi occhi già velati esprimevano angoscia? smarrimento? di fronte alla morte che rapidamente se lo portava via. Adagiato sulla poltrona, appariva finalmente sereno addormentandosi poco a poco. Spero di ricordarlo presto di nuovo con i suoi occhi azzurri.