Donatella Fagioli – Ricordando Raissa

Da «Ricordando Raissa»
a cura di Donatella Fagioli
Roma, s.d. [1989]

Premessa

«Ricordando Raissa» è nato da un affetto. L’affetto che mi legava a una donna, a una donna fragile e gentile, ma insieme anche decisa e passionale; a una donna di cultura, un’archeologa valorosa; a una donna vera, a Raissa.
La conobbi insieme ad Andrea negli anni ’60. Ricordo che la incontrammo ad Ostia Antica (il suo inondo) e con lei visitammo il museo. Quel che subito mi colpii in lei, fu l’ardore col quale ci illustrava ogni singolo pezzo, quasi fossero sue creature; ma anche l’attaccamento che aveva per la piccola casa, circondata di piante e fiori, accanto al museo, vicino alle rovine dell’antica città, e che allora aveva ancora a stia disposizione. Ma fu poi nella casa in città, a Via A. Rivaldi che iniziò, lento ma forte, quel tenero legame che mi ha unito a lei.
Andavo ogni tanto a trovarla per un tè, ed anche qui, come ad Ostia, quel che tanto mi colpiva era la modestia del suo vivere, rispetto alle descrizioni dell’agio in cui aveva vissuto in Russia e, per certi periodi con De Chirico. I racconti della sua vita in Russia, le descrizioni della grande tenuta sul lago Ladoga, mi affascinavano. È un vero peccato che non abbia pensato di scrivere in modo più completo, i suoi ricordi. Ci rimangono solo pochi frammenti racchiusi in questa stia autobiografia. È un racconto dettato con la spontaneità di chi rivive i momenti della gioventù, ed è così che lo abbiamo voluto pubblicare, senza correzioni, perché leggendolo, si possa meglio riconoscere la sua voce.
I suoi ultimi anni furono tristi. Costretta da una paralisi all’immobilità, non poteva più scrivere, e questo l’angosciava molto. Per fortuna riusciva ancora a leggere anche se con grande fatica.
Dovette lasciare la sua casa, la stia biblioteca che donò all’Università di Siena, e dovette vendere anche le ultime cose che possedeva.
Con i suoi oggetti più cari si trasferì nella Casa di Riposo di Monte Cucco, dove conobbe Dora che le divenne amica e con la quale trascorse i suoi ultimi giorni (1). Fu durante questo periodo che le amarezze della vita riemersero con forza, fino a farla soffrire nuovamente. La maggiore fu l’abbandono di Giorgio De Chirico. Un abbandono, tormentato, sofferto e rivissuto ad ogni occasione. Bastava un articolo di giornale che parlasse di lui, di una sua mostra, degli scandali che lo circondavano, a riaprirle la ferita. Fino alla fine sperò ancora in un incontro, ma De Chirico morì e Raissa lo seguì pochi mesi dopo (2).
Scelse Andrea e me suoi esecutori testamentari. È quindi con gioia che adesso, a dieci anni dalla sua morte, possiamo renderle omaggio con queste pagine.
Ho pensato di far seguire ai ricordi giovanili di Raissa, le testimonianze di uno storico dell’arte, Maurizio Fagiolo, e di un archeologo, Andrea Carandini, concludendo con una bibliografia redatta da un’altra amica, Elvira Offenbach, e da una scelta di fotografie.
Mi rallegro anche, di essere finalmente riuscita a esaudire il suo ultimo desiderio: essere sepolta nella «sua» Ostia, nell’area cimiteriale di S. Ercolano, dove sono sepolti, tra gli altri, suo marito Guido Calza e Giovanni Becatti, le persone che le furono più care e che più l’avevano aiutata.
Questo libretto commemora Raissa a dieci anni dalla stia scomparsa.

Roma, maggio 1989

D. Fagioli

  1. Dora Grassi Oloms ha poi scritto un ricordo di Raissa, che ho più tardi pubblicato, nel 1987.
  2. Esiste, tra le carte di Raissa, un breve racconto di quell’abbandono accompagnato di debiti che non la riguardavano e di bugie: «je travaillerai pour vous et je lesserai pour moi seulement le necessaire». Nel frattempo neppure la polizza del Monte di Pietà dove erano depositati i gioielli di Raissa veniva restituita (fu poi recuperata tramite la questura). «Fu per me un colpo terribile…».

 

Raissa Gourevich Calza
I miei primi vent’anni

Sono nata in Russia nell’anno 1897, ad Odessa.
Sono vissuta molto in campagna, in Polonia. E poi a Leningrado (allora si chiamava Pietroburgo). La mia famiglia veniva dall’Ucraina. Erano proprietari terrieri. Mio padre aveva grandi tenute in Polonia e Finlandia (che erano Russia prima della rivoluzione). La mia famiglia era molto facoltosa. Sono stata in Finlandia nei primi anni della rivoluzione. Ho lasciato la Russia nel 1918. Ho sentito parlare tanto della prima rivoluzione, perché mio fratello e il mio futuro cognato erano antizaristi. Quest’ultimo fu arrestato e sposò mia sorella in prigione (era stato arrestato nel 1905 in una dimostrazione di studenti). Nella nostra casa abbiamo sempre tenuto qualche amico ricercato dalla polizia. Eravamo tutti molto favorevoli alla rivoluzione (a quella democratica di Kerensky del marzo 1917), soprattutto mio padre.
Mio cognato conosceva personalmente Lenin, all’estero. Anche Plekhanov. Poiché a Pietroburto d’inverno il clima non era molto sano ed io ero sempre malata, mi mandavano a San Remo ed abitavo nella pensione di Plekhanov, con mio padre e mia madre.
Dato che così perdevo l’anno scolastico, Plekhanov mi dava lezioni, lezioni di storia. Ricordo la mia prima impressione di Plekhanov. Ero con mia madre e siamo scese al mare. Abbiamo visto un uomo seduto con la schiena rivolta al sole. Mi ha fatto una tale impressione! Perché i russi cercano il sole ed invece lui gli volgeva la schiena. Plekhanov aveva due figlie. Fu costretto ad aprire questa pensione perché, come tutti gli uomini come lui, non era pratico della vita e non sapeva guadagnare. La pensione era diretta dalla madre e da una figlia che era medico. L’altra figlia cantava bene ed era una bellissima ragazza. Aveva quattordici o quindici anni.
Sono tornata in Russia proprio quando è cominciata la guerra. Era il ’14. Stavo a Pietroburgo, e allora andavo a scuola. Andavamo dunque in vacanza a S. Remo. E poi a Nervi, dove mio padre comperò una villa. Quando scoppiò la rivoluzione eravamo in Finlandia, nella nostra tenuta a Tervus dove ospitavamo Leonid Andreijev (che abitava in una tenuta poco distante), scrittore russo e bell’uomo. Lì ho conosciuto il noto basso, Fedor Chaliapine. Ho conosciuto anche Gorky.
Il marito che ho lasciato per Giorgio De Chirico, era russo. Era un regista teatrale e si chiamava Giorgio Krol.
C’era il teatro, si chiamava «il teatro dei 12». C’era Pirandello. C’era Savinio che allestiva in questo teatro un dramma che si chiamava Niobe. Io ballavo. Ero allieva di un allievo di Diaghilev. E ero Niobe. Così ho conosciuto Giorgio De Chirico, nel ’21 o nel ’24.
Quando è scoppiata la rivoluzione mia madre morì (inverno 1919-1920) e noi eravamo in Finlandia, dove mio padre aveva una grande e bella proprietà presso il lago Ladoga.
Eravamo cinque figli, di cui io ero l’ultima. Mio padre non era allora in Finlandia ma a Costantinopoli, perché uno svedese – famoso e ricco, che poi si è suicidato – aveva una grande fabbrica di fiammiferi e aveva proposto a mio padre, che gli era molto legato, di riempire una nave di fiammiferi e di portarli a Costantinopoli e nella Russia del Sud, che nel ’18 era ancora bianca. Era difficile viaggiare allora. Quando mio padre sbarcò i fiammiferi, arrivarono i rossi, che si presero fiammiferi e nave.
Tornato in Finlandia ha saputo che mia madre era morta. Allora andò in Italia dove io lo raggiunsi e lì è rimasto con me.
Poi siamo andati a Torino, dove mio padre era ospite di Gualino, Riccardo Gualino, con cui faceva grandi affari (era il ’20). Dopo la morte di mia madre, anche gli altri miei fratelli e sorelle hanno lasciato la Russia. Un fratello a Parigi, l’altro in Polonia. Mia sorella Sophie a Berlino (che fu poi costretta a lasciare nel 1933 quando si recò a Londra). Là ha sposato il principe Obolenski, personaggio molto noto. L’altra sorella si era sposata in prigione durante i moti del 1905, perché il marito era contro lo Zar. A Parigi sono andata nel ’24. Ma Giorgio De Chirico l’avevo conosciuto a Roma, a casa di Olga Signorelli, allora celebre, che teneva un salotto. Era brutta come un accidenti. Era considerata una donna fatale. Ma aveva una faccia brutta brutta. Da lei si riunivano molti intellettuali. Era una amica della Duse, con la quale ebbe una corrispondenza pubblicata pochi anni fa. Da lei ho conosciuto Giorgio e Savinio, che mi volle a teatro come Niobe. Mio padre aveva la passione del ballo e voleva che diventassi ballerina. Abbiamo perduto le tenute in Finlandia e Polonia. Le abbiamo vendute. Quella in Finlandia era di 30.000 ettari di terra. Era bellissima. Arrivava al lago Ladoga ed era chiusa in una baia, con due grandi rocce che entravano nel lago. Le chiamavano Scilla e Cariddi. A Pietrogrado studiavo in una scuola terribile, molto snob. Ho litigato con tutti, perché non li sopportavo. Avevo la passione per Leonardo da Vinci e mia madre diceva che ero la nipotina di Leonardo. Mio padre aveva la passione per l’Italia e voleva che le prime impressioni della mia vita fossero italiane. Allora mi portò a Roma, a cinque o sei anni, e ciò che mi ha colpito più di tutto furono le fontane. Perché in Russia non c’erano fontane. Mi colpirono profondamente. Non ricordo altro. Solo molto acqua. La fontana del Quirinale. E la fontana di Piazza Esedra, con le sue donne nude, e questo mi impressionava. Gualino aveva un nipote. Voleva che lo sposassi. Ma io ero innamorata di un altro. E anche lui era innamorato di un’altra. Allora ci mettemmo d’accordo e facemmo finta di essere innamorati l’uno dell’altro. Lui mi raccontava le bellezze della sua bella ed io del mio bello. E tutto questo, prima della guerra.
Frequentavamo l’ambiente degli artisti. Un giorno mi trovai con il figlio di Chaliapine, il figlio di Gorkj ed il figlio di Pirandello, Fausto. Allora stavo già con De Chirico e senza pensarci mi rivolsi verso di loro: «Mi dite perché i figli dei grandi uomini sono sempre cretini»? Mio padre era un uomo eccezionale, molto grande fisicamente, con due occhi celesti. Tutti in famiglia erano grandi. Quand’ero piccola, a passeggio, lui mi dava il suo pollice, che io lo prendevo tutto con la mia manina. Ci piaceva andare a passeggiare. Mi raccontava tante storie. Eravamo una famiglia molto unita. Una volta mio padre mi scrisse che mi avrebbe mandato un orso bianco per la mia camera. Ma lui intendeva una pelliccia e gli altri capirono che era un orso vero e mi chiesero di tenerlo alla catena.
La prima parte della mia infanzia l’ho vissuta in Polonia. Mio padre aveva comperato una tenuta, a venti chilometri da Brest-Litovsk tra la Polonia e l’Ucraina. Era bellissima, non tanto la tenuta, quanto la casa. Era antica, con sale e saloni pieni di specchi. Con affreschi. Voi italiani non potete apprezzare. C’erano pitture ovunque. Ero una bambina molto romantica. Immaginavo me stessa come principessa, rapita dai cocchieri. Mi piaceva la vita selvaggia e i libri di Jules Verne. In un angolo del parco io e i miei fratelli avevamo un piccolo chalet, che per noi era una tenda di primitivi. Amavo i cavalli, moltissimo. Avevo un mio cavallo che è morto di pleurite. Correva molto e il ragazzo di scuderia gli ha dato da bere quando era ancora troppo riscaldato ed è morto.
Ero lì nelle scuderie, piangevo a ruscelli e ho visto come morì. Affannato, povero cavallo. Si chiamava Maia. Dicevano che Maia e Raia (che ero io) erano inseparabili. Il cocchiere era una figura straordinaria. Era il capo cocchiere. Quando starnutivamo io o mia madre non diceva niente, ma quando starnutivano i cavalli allora lui diceva «Salute!» Avevamo molti servitori. Eravamo una grande famiglia. Avevamo anche il nostro dottore che viveva con noi in casa e viaggiava con noi. Mia madre era piuttosto malaticcia ed è morta per colpa di questo dottore: un attacco di appendicite e lui le ha dato l’olio di ricino. Le ha anche rifiutato i sonniferi. Ed è morta di peritonite. Aveva 52 anni tutto questo in Finlandia. Avevamo governanti. Conducevamo una vita simile a quella descritta in Guerra e Pace di Tolstoi.
La casa era un’antica dimora di un magnate della Polonia, Sobieski. Ad un chilometro da noi c’era il suo palazzo, anzi un castello. E noi andavamo da lui. Quando si tagliava il fieno era grande festa e mi ricordo che si metteva fuori una grande botte di vodka per tutti i contadini che venivano. Lì ebbi la mia prima emozione erotica, a 13 anni. Da noi il fieno non si raccoglieva in piccoli mucchi come qui, ma in un covone molto alto. Una volta ero riuscita a salirci sopra, ma non riuscivo a scendere. Allora un giovane contadino che lavorava lì vicino mi disse: «vengo io a prenderla» e mi portò giù. Lui mi ha preso e ho sentito l’odore di uomo. Di maschio. Questa è stata la mia prima emozione erotica. C’erano anche molti ebrei. Il rabbino aveva mal di fegato e doveva passeggiare per un’ora. Ma nel paese non poteva. Allora pregò mia madre di poter passeggiare nel parco. Naturalmente mia madre disse di sì. La mia camera era all’angolo della casa. Io mi mettevo dietro la finestra e quando lui arrivava sotto la finestra l’aprivo e lui si scandalizzava perché i rabbini non potevano guardare le donne. Molti ebrei in quel periodo emigravano in America. Erano così religiosi che il sabato non portavano l’ombrello, perché era anche questa una fatica e il sabato non bisognava fare fatica. Erano molto perseguitati in Polonia. Terribile. C’erano i pogrom, ma non da noi. I contadini sopportavano gli ebrei, con un po’ d’ironia. Li consideravano fisicamente deboli. La figlia del rabbino veniva a giocare con me. Aveva dieci, undici anni. Un bel giorno mi dice: «non vengo più». Le domando perché. «Perché – dice – mi sposo». Ero meravigliata. Lei non poteva vedere il suo fidanzato. Un giorno salì su uno sgabello in una stanza vicina e dalla finestra riuscì a vederlo. Era come in Oriente. Credo che adesso non sia più così. Si sposò ad undici anni. A Natale mia madre faceva un grande albero per i contadini che erano al nostro servizio e per i loro bambini. Su ogni regalo c’era scritto il nome. Si mettevano tutti in fila ed aspettavano in una camera buia. Ad un certo momento mia madre o la mia governante cominciava a suonare il pianoforte. Voleva dire che potevano uscire. Il grande divertimento era trovare il proprio nome. E allora gioia, giubilo e grida. Erano felicissimi. Per Pasqua, secondo l’usanza russa, si metteva su un grande tavolo tutto il mangiare immaginabile. I piccoli impiegatucci – come quelli di Gogol  cominciavano a fare gli auguri dai gradi più alti. A ogni tavola cera da mangiare e vodka. Bevevano. Alla fine della giornata erano completamente ubriachi. Noi mangiavamo alla tavola dei nostri genitori. L’educazione che ricevevamo credo sia uguale a quella di adesso. Dipende dai mezzi. Imparavo le lingue. All’inizio avevamo un’istitutrice tedesca che andava a letto con tutti. Io l’ho saputo solo dopo e allora non capivo. Ma dicevano che era scatenata. Da mio fratello fino all’ultimo dei cocchieri. Quando mia madre se ne accorse la mandò via. Per i fratelli miei venne poi una inglese e per noi una francese. Si chiamava Mademoiselle Mouillé, che in francese vuol dire bagnato. Avevo allora undici, docici anni. Sognavo di essere una grande principessa, ma non nel senso russo. Come nelle storie di Verne. Una principessa delle fiabe.
I beni di mio padre furono confiscati.
Io lavoravo nel teatro e avevo il rispetto di tutti. Così sono arrivata a Mosca, dove mio marito dirigeva un teatro. Spettacoli russi e spagnoli: Lopez de Vega, ecc. Sono rimasta lì fino a che non è morta mia madre.
Non conoscevo personalmente Majakovski, ma ho avuto modo di incontrarlo e lo ricordo molto bene. Eravamo in un teatro. Lui è saltato su un tavolo ed ha cominciato a leggere le sue poesie. Poi è venuto da noi. Io ero piuttosto bella, da giovane. Mi ricordo che mi guardava con due occhi… Anche lui era bello, in senso molto maschile.
Ho un terribile ricordo di Esenin, perché lo vidi – ero già a Berlino allora – ubriaco fradicio. Viveva allora con la danzatrice Isadora Duncan. Arrivarono insieme e cominciarono a ballare. Lei faceva i suoi movimenti e lui, fatto due passi – bum! – cadde di colpo, tanto era ubriaco. Non ricordo come ho lasciato la Russia.
Mio marito (Krol) venne con me, ma poi è tornato in Russia. Io ballavo, in vari teatri. A Berlino. Poi a Parigi e finalmente in Italia. Qui arrivò mio padre. Stavamo all’albergo Flora. Mio padre già sapeva della morte di mia madre. Allora i teatri nascevano come funghi. Tutti tipo la commedia dell’arte. Ho conosciuto molti scrittori, come Leonid Andreiev, che è poi morto in casa nostra. Ho anche conosciuto Gorki, ma più tardi, a Sorrento. Ho conosciuto Diaghilev, ma quando ero già con Giorgio (De Chirico). Ho conosciuto Stanislavski. Era bello, simpatico e così cordiale. Mi voleva con sé. Il teatro cominciava a modernizzarsi allora e lui voleva anche mio marito (Krol), perché era un teatro moderno. Voleva mettere in scena l’Uccello di fuoco con mio marito come regista. Ma non ci fu niente da fare. Non era nello spirito del teatro di allora. Gli attori si ribellavano, non volevano… Mio marito era regista. Nel teatro di Meierchold. Meierchold lo conoscevo bene. Sua moglie è morta in un modo terribile: assassinata, pugnalata. Un mistero. Lui l’amava molto. Era geloso come Otello. Era una bellissima donna, un po’ formosa. Quando passeggiavano dalle parti di Villa Borghese davanti ai tavolini di un caffé, lui diventava geloso, come un leone. Mi ricordo un giorno, – (loro abitavano da noi) dopo una scena di gelosia che pareva tremasse la casa; vidi lei che con disperazione per questa gelosia batteva la testa contro una stanga che era in cucina. Credo che fosse una spia russa. Per questo forse l’hanno uccisa. Era stata la prima moglie di Esenin e lui non le dava un soldo. Lei aveva un bambino e dormiva sopra un tavolo, perché non aveva denaro. Esenin veniva da lei, portava regali fantastici per il bambino, ma non pensava di aiutarla a vivere, a mangiare, a dormire. Era un uomo antipatico e presuntuoso.
Maierchold dirigeva in Russia il teatro di stato, l’Aleksandrovski Teatr. Diede il «Ballo in Maschera» di Michael Lermontov (marzo 1917). Che delizia! Allora era già cominciata la rivoluzione e allo spettacolo venne lo zar. Lo spettacolo era di una ricchezza fantastica: per ogni atto c’era un sipario diverso. Uno era tutto di merletto, con in mezzo una corona. E la ricchezza dei costumi! Ma alla fabbrica Putilov, che era la più grande fabbrica di cannoni, si sentivano già gli spari. E intanto a teatro tutto questo lusso. Fu l’ultima apparizione in pubblico dello zar e della sua corte. Grandi toilettes, grandi gioielli. E nei silenzi, gli spari dalla fabbrica. Era la Krupp russa.
Avevo imparato a ballare con Maierchold. Mi dava lezioni una ballerina del teatro imperiale. Ma che impressione quel contrasto con la ricchezza dello spettacolo. Perché tutti noi, allievi di Maierchold, partecipavamo allo spettacolo. Ho visto quindi tutto da vicino. E fuori si sentivano gli spari. Maierchold era simpatico, ma intollerante come tutti gli uomini di grande talento e gusto. Amava molto il mio primo marito, che tornò in Russia. Maierchold era allora in Europa, ma poco dopo gli scrisse che sarebbe tornato anche lui. Mio marito morì poi in Russia. È andato in barca e la barca è tornata senza di lui. Dopo un giorno il mare ha riportato a riva il suo corpo. E morto nel 1922. Sono rimasta vedova a 25 anni. Mio padre aveva venduto la proprietà in Finlandia ed aveva diviso il denaro fra noi; ma mia sorella Anna era sposata ed il marito era molto ricco (era quella che si era sposata in prigione). La sensazione della bellezza, del significato della bellezza, l’ho avuta da piccola. Era il 22 febbraio, la festa di mia sorella. Io ero piccola, avevo forse 6 o 7 anni, e sono entrata nel salotto e ho visto lei che si guardava allo specchio con un vestito nuovo. Non s’è accorta che la guardavo. Era veramente bellissima. Aveva gli occhi come due stelle, blu. Con i capelli neri tutti ricciuti. Molto bella. Ho capito allora cosa vuol dire il bello. Avevamo otto anni di differenza.
Non sono mai andata al cinema, in Russia. A teatro molto e molto ai concerti. Ma al cinema no. Mia madre amava molto la musica. Quando era incinta – eravamo cinque figli – andava ai concerti sperando che il bambino che doveva nascere diventasse musicista o direttore di orchestra. Invece niente. La famiglia più antimusicale che si potesse immaginare!
Ci fu infine la partenza dalla Russia. Per andare da casa nostra sul lago Ladoga a Leningrado si prendeva la ferrovia. La proprietà distava 60 chilometri dalla ferrovia. Ma non era possibile andare a Leningrado perché nel 1918 tutte le ferrovie erano occupate da soldati che tornavano a casa dal fronte. Bisognava andarci comunque. Ma come? Con i cavalli, attraverso il lago. Fino ad Arkhangelsk. E da lì avremmo trovato la ferrovia. Mi ricordo le sensazioni di allora. Il lago Ladoga ha una particolarità. Gela solo ogni 7 anni. Non so perché. È un fenomeno naturale. Ogni 7 anni. Quello era l’anno che il Ladoga era gelato. Quando fummo con le slitte nel mezzo del lago sentimmo come delle cannonate. Era il ghiaccio che rimbombava sotto di noi. Così arrivammo ad Arkhangelsk. In questa città nordica i contadini vivono al piano di sotto e tengono sopra le scuderie con i cavalli. Loro dicono che così la casa è più calda. Ma dormire con l’odore dei cavalli, e il resto… Quando poi i cavalli battevano gli zoccoli, la casa tremava tutta.
Siamo così arrivati a Leningrado. Lì ho saputo che mio marito non era a Leningrado, ma già a Mosca. Io mi ero sposata nel ’18. Allora ho raggiunto Mosca col treno. Questo viaggio mi ha fatto conoscere l’animo dei soldati. Commovente. Tanto buoni. Perché io ero l’unica donna. E tutti i vagoni erano pieni di soldati. Nella terza classe, naturalmente, perché la prima classe era occupata e non ci potevano andare i civili. Il vagone aveva delle panche e ogni persona aveva una panca per dormire. Come mi coccolavano quei soldati! Non avevo paura. Al contrario. Avevo come un senso di amore per loro. Accanto alla mia panca dormiva un soldato. Un Tartaro. Tutta la notte mi cantava canzoni tartare. Molto belle. Commoventi. Io non capisco il tartaro; lui cantava a mezza voce.
Quando i soldati tagliavano il pane, lo dividevano tra loro.
Era il pane nero che si fà in Russia, me ne davano con del lardo. Era molto bello quel soldato, quel Tartaro. Così sono arrivata a Mosca. Per andare da Leningrado a Mosca ci voleva, in generale, una notte, come da Roma a Milano. Ma quel treno andava piano. Ci vollero due o tre giorni, non ricordo. E poi quei soldati che tornavano dal fronte, sbandati, sporchi… Era il ’18. Viaggiavano come potevano e molti – questo era tipico della . rivoluzione – viaggiavano sul tetto del treno. Era febbraio e faceva molto freddo. Battevano i piedi per riscaldarsi. Si immagini come si poteva dormire! Era veramente molto freddo. Ma il pericolo non era tanto il freddo, quanto il cadere dal tetto ed infatti un soldato cadde e morì. Colore locale! Allora a Leningrado c’era la rivoluzione. Ma io non ne ho molto risentito.
Così ho lasciato la Russia, a venti anni, e sono arrivata in Italia.
Raissa Gourevich Calza

Maurizio Fagiolo dell’Arco
Raissa e Georges

Poche donne si contano nella vita di Giorgio de Chirico (che sia la madre, l’Unica?). Non emerge nessun incontro (almeno a giudicare del materiale documentario noto fino ad oggi) fino all’inverno 1925.
La prima appare Raissa. Viene poi Isa (che lo strappa a Raissa) alla fine del 1930. E poi, apparentemente, nessun’altra. L’incontro con Raissa (il pittore affermato ha quasi 37 anni) lo stimola a una nuova avventura: vitale (il ritorno a Parigi) e pittorica (una nuova metafisica archeologica e surreale).

Un incontro
Ultimi rigori del 1924. Nel circolo di Luigi Pirandello, che ha formato da poco il «teatro degli Indipendenti», de Chirico è accanto a Savinio per la messinscena d’una tragedia mimica, La morte di Niobe. Annunciata per il 27 febbraio (da «La Révolution Surrealiste», nientemeno!) va in scena al Teatro Odescalchi il 14 maggio. Giorgio ha il modo di avvicinare e ammirare una russa affascinante che impersona il ruolo della protagonista Niobe: si chiama Raissa Gourevich, è sposata al coreografo dello Spettacolo Giorgio Kroll. Vola Cupido tra le quinte del «Teatro d’arte di Roma», se contemporaneamente Alberto Savinio (altro misogino, almeno in apparenza) incontra la sua futura moglie: è Maria Morino che ha lavorato con Eleonora Duse e nella stessa pièce La morte di Niobe impersona «la signora smancerosa».
In Via Appennini 25/b, dove i due fratelli abitano con la protettiva madre Gemma, gli incontri furtivi non si contano (per i ricordi di Maria Morino, rimando al recente libro Con Savinio, Sellerio, Palermo 1987). Di quale tipo siano stati i loro rapporti, si può intuire da una curiosa cartolina inviata a Pierre Roy, pittore parigino, il 20 giugno 1925, in cui de Chirico, annunciando di volersi trasferire a Parigi in autunno, parla del suo nuovo amore latino (evidentemente per non essere compreso dalla madre): domina slanci ed indea quae corde micante amo profecta est (…) sed sumus semper ego ed illa amici platonicissimi.
Non sappiamo quando esattamente si siano stretti in modo definitivo i legami tra Raissa e de Chirico. E certo, da alcune testimonianze, che Raissa fu determinante nel far prendere all’artista la decisione di un trasferimento definitivo in Francia, e che essi, a Parigi, presero casa insieme. Qui Raissa abbandona la danza e si dedica allo studio dell’archeologia, alla Sorbonne, dove ha come maestro il famoso archeologo Charles Picard. La sintonia culturale tra i due dovette essere notevole, e non estranea all’interesse che negli anni parigini de Chirico mostra per soggetti archeologici.

Un amore
Trascrivo un documento inedito, una lettera di Giorgio a Raissa scritta di notte (per il riferimento a Rosenberg è databile dopo il maggio 1925, data della mostra personale a Parigi). Con l’accavallamento linguistico e l’amore da romanzo, vale più di qualsiasi ricordo o analisi.

Rome – Mardi  22 heures
Ma grande, ma pure, mon eternelle amie!
Ce soir en rentrant j’ai deux 2 lettres de vous. Belles et tristes c(omme) vous. Maintenant ces deux lettres soot pliées stir mon coeur, mon ange, je suis couché, j’ai travaillé tonte la journée en pensant à vous et maintenant après avoir lu vos lettres…
Ma divine amie; mein teures Kind, quelles paroles pourraient vous dire ce que je sens, vous décrire mon ame, et ma pensée; dica (?) chère petite et très grande arnie, mon cinge très pur, je suis ici soumis à vos ordres, prêt à mourir pour vous, à vous donner pas settlement mon travail, mon amour, mais mon sang, s’il le taut.
Ma pure et chère arnie vous n’avez quà dire un mot et je serai à vos pieds, et si volts ne voulez pas que je vienne je pourrais vous envoyer l’argent pour le voyage et vous pourrez alley vous reposer quelque part loin de ce monde stupide et vulgaire qui n’est pas digne de vous.
Nur seien sie nicht traurig meine tenere Freudian Mon amour eternel et mon ardente amitié vous protègeront toujours. Je travaille beaucoup mon ange, je suis très inspiré mon ame que vous avez purifiée et exaltée n’existe que pour vous et pour la peinture.
Pardonnez moi si je vous ai écrit des mauvaises choses. Je ne pense rien de mauvais des votre art, an contraile aucune femme ne m’a mais tant profondement impression pour les dons artistiques comme vous; seul le choeur des muses serait dine de vous recevoir! (Volts direz un compliment italien). Oh, si vous saviez, ma divine arnie! Pardonnez moi si je vous ecris sui ce papier; je n’en ai pas trovué d’autre dans la chambre; le dessin est très mauvais, ça represente une vue de l’Ombrie Maintenant je lirai Tristan et Iseult puis je dormirai. Je vous écrirai tons les jours. A volts dedié jusqu’à la mort, prêt a tout pour vous.
G. de Chirico
(sul margine sinistro)
Je vous envoie 200 lires – excusez moi
d’ici quelque jours j’enverrai le reste

(sul margine destro)
Rosenberg m’écrit des choses très
encourage anates je (?) heure que
je gagnerai à

Paris, tour pour vous.

 

Una musa
Negli anni di Parigi la sintonia nella giovane coppia dovette essere emozionante.
Sorprendiamo Giorgio (divenuto Georges) mentre preleva da scaffali di Raissa i repertori sull’antica Grecia e soprattutto i volumetti di Salomon Reinach: il pittore ricalca da quella immagine filtrata dell’antico i suoi cavalli in riva al mare e i suoi gladiatori, memorie della sua infanzia tenebrosa. Le dedica poesie sibilline, come quella apparsa nella rivistina «La Ligne du Coeur» nel gennaio 1927 (la dedica «à Madame R.L.» dimostra che il precedente vincolo è ancora esistente).
Le disegna un ex libris per la biblioteca: un busto classico e una testa di cavallo davanti a un’acropoli e ai capitelli mozzi evocati da Pausania.
Raissa tiene un album della loro vita quotidiana: grazie a queste fotografie, possediamo oggi molti documenti visivi relativi al timodo Georges.
In occasione del loro matrimonio (ancora non sappiamo le circostanze) Gino Severini regala agli amici una tempera raffigurante unaAnnunciazione.
Doveva somigliare molto alla sua amica Gala, la giovane moglie. Entrambe russe, entrambe ebree, entrambe rigide e possessive (materne), entrambe votate all’occidente dell’arte. A Parigi può rincontrala, Gala Diakonova, mentre sta per lasciare un poeta (Paul Eluard, il vate di de Chirico) e sta per accompagnarsi a un pittore (Salvador Dalì).

Una modella
Molte volte la ritrae de Chirico in questi anni. Raissa è la protagonista del quadro del 1927 L’ésprit de domination (anche se il titolo fosse di Paul Guillaume, sarebbe ben indovinato per il loro rapporto). Una donna sdraiata, come una modella picassiana poggiata a un pilastrino ionico e a un plinto, in un interno misterioso, colorata in volto e sul petto con i variabili toni dell’arcobaleno (o della pubblicità «solarizzato» rievocata in una pagina dechirichiana). Appare in un simile disgno di nudo e in un ritratto che la vede accanto a Georges come una doppia medaglia (non è invece Raissa ma la sorella che me lo ha gentilmente comunicato il ritratto femminile del 1926 da me pubblicato).
E infine tre ritratti a mezzo busto: uno di spalle (oggi perduto), uno di fronte (appartenne fino all’ultimo a Raissa, ma era in pessimo stato), uno solenne e matriarcale del 1930. Alle soglie dell’abbandono.

 

Nota – Rimando ad alcuni miei lavori, per un approfondimento. Giorgio de Chirico, Parigi 1924-1929, dalla nascita del Surrealismo al crollo di Wall Street, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, P. Baldacci, Daverio Milano 1982 (2′ ed., Daverio-Mondadori, Milano 1983). De Chirico, gli anni Venti, catalogo della mostra, Verona, Galleria dello Scudo, Palazzo Forti, 1986: Milano, Palazzo Reale 1987; La vita di Giorgio de Chirico, Allemandi, Torino 1988.

Andrea Carandini
Raissa e le statue

Presi brutalmente gli oggetti classici trasfigurati che aveva contribuito come musa a disporre nei quadri di De Chirico, Raissa lascia Parigi e va a riprenderseli da archeologa e in originale a Roma. La piccola russa dagli occhi azzurri, mobili e impertinentemente strabici lascia l’arte e va incontro alla scienza dell’antichità. Non deve essere stato facile per la sua natura molto femminile. I vecchi amori non li scorderà più.
È un ritratto di Sabina, moglie dell’imperatore Adriano, a portarmi inconsapevolmente a lei nella seconda metà degli anni ’60. Lontani i fasti e nefasti parigini, era anche morto il suo terzo marito, Guido Calza, che era stato soprintendente alle antichità di Ostia, validamente assistito da Raissa, che di quelle rovine sotto i pini rimarrà una gentile personificazione.
Il ritratto di Sabina mi era stato regalato dai genitori per le nozze con Donatella. Feci appena in tempo a studiarlo prima che lo rubassero. Erano i miei primissimi passi nella ritrattistica romana e fu Ranuccio Bianchi Bandinelli a consogliarmi di chiedere consiglio a una esperta, Raissa Calza, ch’egli stimava e per la quale aveva una particolare simpatia. Raissa non era convenzionale e non aderiva all’establishement. Per questo anch’io l’avrei amata.
Sono così incominciati gli incontri pomeridiani con Raissa nel suo appartamento romano, dove viveva con una coppia e un bambino che ogni tanto compariva per un biscotto. Una sola stanza era la camera da letto, il suo studio e la sua sala. Sullo stesso lato della porta stava il lettino. A destra era la libreria, pienissima e con i libri farciti di appunti (poi generosamente donati all’Università di Siena, che già ospitava quelli di Bianchi Bandinelli). In fondo, la finestra e lo scrittoio in un grande attivissimo disordine. E a sinistra, fra altri libri, le due poltrone, una di fronte all’altra. Raissa era una persona che si guardava con piacere negli occhi.
Dalla bocca carnosa, a cuore, di una sensualità vagamente orientale, usciva un italiano inconfondibile, musicalmente russificato. I primi a cadere erano i verbi. Si lamentava di colleghi che l’angustiavano con burocratiche complicazioni e piccinerie mentali. Eravamo vicino al ’68 e soffrivo con lei per le stesse ragioni, protestatari e libertari entrambi. Rara avis quella Raissa. Passava poi a domande curiose e a ricordi divertenti. Godevo delle sue lunghe esperienze e delle larghe vedute. Lo spirito era coraggioso e la sua vita più grande della sua archeologia, dono rarissimo, specialmente allora, fra i cultori delle discipline archeologiche.
La vitalità sopravanzava la prassi scientifica, ma non il rigore. Aveva quella varietà interiore dei grandi dilettanti di un tempo. Conosceva benissimo la scultura romana e scriveva libroni eruditi, in cui grandi quantità di materiali venivano amorevolmente (non germanicamente) sistemati. Giovanni Becatti, che sempre molto aveva fatto per lei, anche sul piano della vita pratica, la consigliava e le aggiustava con pazienza l’Italiano traballante (se amava Raissa, era perché anche lui, senza troppo mostrarlo, poteva essere attratto dagli anticonvenzionali).
I cittadini dell’antica Ostia erano divenuti la passione di Raissa. Li conosceva a uno a uno nei loro ritratti, e in quegli obitori che sono i magazzini ostiensi, scongelava braccia, gote e capigliature e le riconnetteva ai corpi dei legittimi proprietari, ridando loro un’ultima estetica vita. Nel ricomporre quelle sculture con un occhio straordinario viveva un’avventura animata e commovente. Con i ritratti lei conversava. Li trattava come conoscenze (lo si vede in alcune delle fotografie).
A me allora questo atteggiamento pareva ingenuo e invece era segno di contatto vero con le cose antiche, come pochissimi professionisti ancora sanno avere. In questa sua immediatezza Raissa era pre-moderna. Il suo occhio riconosceva somiglianze, stabiliva confronti, grazie a quella presa diretta e speciale sulle cose. Io imparavo dietro a lei a discernere volto da volto e così arrivai a scrivere Vibia Sabina. Raissa non conosceva teorie, metodologie, elaborate concezioni degli stili. Era soprattutto una frequentatrice di oggetti e sapeva star bene nella loro società.
Disponendo solo di una modestissima pensione, si aiutava ogni tanto con qualche piccola expertise che gli procurava Federico Zeri. Ma non conosceva la disinvoltura e il cinismo di certi conoscitori. Dietro la sua garbata gentilezza vi era un senso netto della giustizia. Tutto aveva accettato dalla sorte, salvo il modo in cui era stata licenziata da de Chirico.
Non era facile invecchiare, da sola, senza un soldo, senza una posizione ufficiale. Ebbe però dei veri amici che le vollero bene e lei aveva l’arte di vivere, di non dar nulla per scontato, di godere di ogni cosa, del sole, del mare, dei marmi, come di un immenso dono. Donatella l’accompagnò come una figlia alla morte e ha fatto deporre il suo piccolo corpo dove desiderava e le spettava, nel pittoresco cimitero degli archeologi ostiensi. Quando ripenso a lei mi viene da sorridere, penso alla sua vecchiaia di adolescente. È stata un incontro molto piacevole e riparatore.