Laura Nicotra – Raissa Gourevitch Calza

Da Laura Nicotra, Raissa Gourevitch Calza, in Archeologia al femminile. Il cammino delle donne nella disciplina archeologica attraverso le figure di otto archeologhe classiche vissute dalla metà dell’Ottocento ad oggi, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2004, pp. 107- 136.

RAISSA GOUREVITCH CALZA (1897-1979)

Raissa Calza visse la sua vita all’insegna dell’arte. La sua famiglia fece parte dell’alta borghesia russa, le cui grandi facoltà economiche poterono soddisfarne il vezzo degli interessi artistici. La sua casa fu abitualmente fre­quentata da artisti, e fu la famiglia stessa ad incoraggiarla ad intraprende-re la carriera di ballerina teatrale, fino a quando alla passione per la danza non subentrò quella per l’archeologia. Se le possibilità economiche della famiglia abbiente le permisero di viaggiare attraverso l’Europa per cono­scere le bellezze e le attrazioni delle capitali europee, ella compì una singo­lare scelta anticonformista ritirandosi dall’ambiente mondano dei salotti europei per intraprendere lo studio dell’archeologia, disciplina per pochi, e specializzarsi nel suo ancora più particolare ambito della ritrattistica.
Dopo gli studi alla Sorbona, fu quasi naturale il suo trasferimento in Italia, per entrare in contatto diretto con le sculture antiche divenute oggetto del suo interesse. La sua vita subì dunque un processo di trasfor­mazione, che la portò dalla ribalta dei grandi salotti culturali europei al defilato e selezionato mondo dell’archeologia, e che ebbe il suo culmine nella scelta di trascorrere ad Ostia, ambiente ancor più ristretto ed isolato, più di vent’anni. In questo sito archeologico ella svolse due mansioni ancora una volta tipicamente femminili, ovvero la catalogazione dell’ap­parato iconografico e la direzione del museo, di cui aveva curato anche l’allestimento.
Evidentemente la sua fu una gran passione se, nonostante si trovasse perfettamente a suo agio nella mondanità europea, se ne distaccò senza rimpianti per intraprendere in un luogo ritirato un lavoro che costava grande fatica (soprattutto per la sua salute inferma) e non procurava gran-di riconoscimenti da parte del mondo accademico, nel quale stentò ad essere accettata soprattutto per la diffidenza che le procurava la sua condizione di straniera senza una precisa posizione sociale (come dimostra anche la scelta di firmare i propri lavori sempre con il cognome del marito – prima De Chirico, poi Calza -, e mai con il proprio).
Infatti, oltre al grande problema del suo italiano incerto – che la costrin­se sempre a richiedere l’aiuto di collaboratori che le correggessero le bozze delle opere -, la Calza inizialmente non godette della stima di molti colleghi archeologi, che la ritenevano incapace di alcuna prassi scientifica, e la avvi­cinavano più ad una grande dilettante che ad una rigorosa studiosa. Essi ne criticavano i “libroni eruditi”, in cui sistemò grandi quantità di materiali scultorei con una incontestabile profonda conoscenza della scultura roma­na, dando però a loro giudizio anche dimostrazione di non conoscere né teorie, né metodologie, né tantomeno elaborate concezioni degli stili.
Sebbene non fosse infondata, la critica avvalorava la mancata com­prensione dell’originalità del ruolo stesso della Calza nell’ambito dello stu­dio della ritrattistica romana: ella fu soprattutto una “frequentatrice” dell’antica società romana e dei suoi prodotti, e trattò i ritratti come cono­scenze, con la quali quasi “conversava amorevolmente”. Il suo occhio rico­nosceva somiglianze e stabiliva confronti, grazie ad un rapporto diretto e speciale con gli oggetti antichi. Tale modo di agire trovò la sua massima espressione nel lavoro che svolse nell’antica Ostia, i cui cittadini erano divenuti la sua “passione”. Li conosceva ad uno ad uno nei loro ritratti, e “in quegli obitori che sono i magazzini ostiensi scongelava braccia, gote e capigliature e le riconnetteva ai corpi dei legittimi proprietari, ridando loro un’ultima estetica vita”(1). Questo atteggiamento potrebbe sembrare ingenuo, ma è al contrario segno di contatto vero con le cose antiche, che solo pochissimi professionisti sanno avere.
Non a caso pian piano ella seppe dissipare l’alone di diffidenza che la circondava, guadagnandosi la stima di alcuni dei più grandi archeologi del tempo, come Ranuccio Bianchi Bandinelli, Guido Calza e Giovanni Becatti, che ne riconobbero il talento e l’originalità, e le offrirono il loro incondizionato supporto.
Così, oltre a superare le critiche dei suoi contemporanei, le opere della Calza superarono brillantemente anche la ben più significativa prova del tempo, tanto che ancora oggi vengono consultate come caposaldi ogni qual volta si debba affrontare il tema del ritratto romano.

VITA

La russa Raissa Gourevitch nacque ad Odessa il 28 dicembre 1897(2) da Samuel e Berta, facoltosi proprietari terrieri ebrei originari dell’Ucraina.
La sua infanzia fu caratterizzata da continui spostamenti, da S. Pietroburgo dove abitava alle grandi tenute di campagna acquistate dal padre in Polonia presso Brest-Litovsk e a Tervus sul lago Ladoga in Finlandia, che prima della rivoluzione facevano parte della Russia.
La famiglia, antizarista e favorevole alla rivoluzione democratica di Kerensky del marzo 1917, frequentò l’ambiente degli intellettuali rivolu­zionari e degli artisti.
Raissa, ultima di cinque figli, ebbe l’educazione che si confaceva al suo rango (3), studiando con istitutrici madrelingua le lingue straniere e – a causa della sua salute cagionevole – passando gli inverni con i genitori nella località balneare di San Remo, dove ricevette lezioni private di storia dall’intellettuale Plekhanov, e poi a Nervi, dove la famiglia aveva una villa.
Il padre, amante della danza, desiderava che diventasse ballerina e la instradò nel mondo del teatro. Raissa fu allieva di Maierchold, a sua volta allievo del famoso Diaghilev. In questo ambiente conobbe il regista teatra‑le Giorgio Krol, che nel 1918 divenne il suo primo marito e con il quale si trasferì a Mosca, dove egli dirigeva un teatro.
La vita di Raissa e della sua famiglia fu sconvolta dalla rivoluzione, che comportò la confisca dei beni paterni in seguito alla quale fu presa la triste decisione di lasciare la Russia. Con il ricavato della vendita della tenuta di Tervus, l’unica non espropriata, i fratelli si recarono alla volta delle grandi capitali europee, mentre dopo la morte della madre nel 1919 il padre si sta­bilì in Italia, dove fece grandi affari con l’industriale torinese Riccardo Gualino e fu presto raggiunto da Raissa allora ventenne. In quegli anni ella viaggiò molto per l’Europa, lavorando nei teatri di Berlino e Parigi in un primo momento insieme al marito, che in seguito tornò in Russia dove nel 1922 morì annegato nel Mar Nero, lasciandola vedova a soli venticinque anni.
Nel 1924 a Roma ella conobbe a casa di Olga Signorelli, anima di un celebre salotto, Giorgio De Chirico – al tempo già pittore affermato di tren­tasette anni -, che sarebbe divenuto il suo secondo marito. La Gourevitch era infatti entrata a far parte del circolo intellettuale romano e nel “Teatro degli Indipendenti” da poco formato da Luigi Pirandello, tanto che Alberto Savinio (lo pseudonimo di Andrea De Chirico) la volle come protagonista della sua tragedia mimica, La morte di Niobe. De Chirico, che era accanto
al fratello per la messinscena di quest’opera, ebbe modo di avvicinarla ed ammirarla, e ben presto fra i due scoccò l’amore.
L’anno seguente, dopo essersi sposati, Raissa e De Chirico si trasferiro­no a Parigi, dove la russa abbandonò la danza per dedicarsi allo studio dell’archeologia alla Sorbona, seguendo le lezioni del famoso archeologo Charles Picard (4). La sintonia culturale fra i due coniugi dovette essere note-vole, e non estranea all’interesse che negli anni parigini De C hirico mostrò per i soggetti archeologici (5), dando vita ad una nuova metafisica archeolo­gica e surreale (Fig. 29).

Nel 1930 la loro travolgente storia d’amore si interruppe in modo molto brusco, tormentato e sofferto quando De Chirico la abbandonò per quella che poi divenne la sua seconda moglie, la polacca Isabella Packwer La Gourevitch non accettò mai il modo in cui fu licenziata dal secondo mari-to, né tantomeno lo squallido strascico di una separazione caratterizzata da bugie e da debiti che non la riguardavano (in un primo momento De Chirico si rifiutò persino di pagarle gli alimenti, e solo dopo la sentenza del tribunale le corrispose una modesta somma, che si sarebbe sempre più ridotta per influenza della nuova moglie del pittore).
Persi brutalmente gli oggetti classici trasfigurati che aveva contribuito come musa a disporre nei quadri di De Chirico, la russa lasciò Parigi ed andò a ritrovarli da archeologa ed in originale a Roma, preferendo la scienza dell’antichità all’arte contemporanea.
Cominciò così la seconda fase della vita di Raissa, che divenne un’e­sperta di ritrattistica romana spesso interpellata in casi di stesura di cata­loghi, incertezze nell’attribuzione o nella datazione di sculture, stimata da molti illustri studiosi e apprezzata e sostenuta da Pensabene e Bianchi Bandinelli (che nutriva nei suoi confronti una grande simpatia).
Incapace di certificare i suoi studi universitari e non potendo pertanto ottenere incarichi come archeologa presso alcuna istituzione italiana, nel 1937-38 giunse come fotografa e segretaria presso la Soprintendenza di Ostia, dov’era in corso la grande campagna di scavi degli anni 1938-42 diretta da Guido Calza in vista dell’Esposizione Universale in occasione del ventennale fascista. Da quel momento Ostia divenne il centro dei suoi inte­ressi ed il suo mondo, che amò per il resto della sua vita.
Ella acquisì una vasta conoscenza del materiale dell’antica città, grazie alla quale partecipò all’allestimento del Museo Ostiense, curandone perso­nalmente la selezione delle sculture e delle pitture, il loro restauro, ed anche l’illustrazione della guida.
Lavorò per molti anni a fianco di Guido Calza, il Soprintendente delle Antichità di Ostia, che cinque mesi prima della propria morte nel 1946 decise di sposarla, quasi per garantirle la posizione sociale che la sua con-dizione di straniera e di archeologa non convenzionale non le aveva mai consentito di avere.
La Calza dedicò ad Ostia numerosi cataloghi, guide archeologiche e molti saggi, con un’attenzione particolare per l’iconografia romana impe­riale (specialmente tarda); e solo quando ritenne di aver portato a termine il suo lavoro di documentazione, catalogazione ed attribuzione delle scul­ture ostiensi decise di potersi dedicare ad altro, occupandosi dei ritrova-menti della Villa di Massenzio e delle antichità di Villa Doria Pamphilj (precedute dalla collaborazione all’Enciclopedia dell’Arte Antica, in cui aveva trattato quelle di Villa Albani e del Museo Torlonia).
Fu inoltre il primo collaboratore scientifico della Fototeca Unione pres­so l’American Academy in Rome, membro dell’Istituto Archeologico Germanico (di cui curò la sistemazione della Fototeca) e socia corrispon­dente della Pontificia Accademia Romana di Archeologia.
I suoi ultimi anni furono tristi. Dovette lasciare la piccola casa accanto al museo di Ostia che aveva avuto a disposizione anche dopo la morte di Calza, trasferendosi a Roma dove visse molto umilmente, rispetto all’agio dei suoi anni in Russia. Dispose solo di una modestissima pensione, aiu­tandosi talvolta con qualche piccola collaborazione che gli amici sempre fedeli (in primis Federico Zeri) le procuravano.
Costretta da una paralisi all’immobilità, subì l’angoscia di non poter più scrivere, e di leggere con grande fatica. Non le fu facile invecchiare sola, senza denaro e senza una posizione ufficiale. Fu costretta a lasciare anche la sua casa romana, la sua biblioteca (1275 opere, circa 400 estratti, appunti manoscritti, fotografie archeologiche e personali), che in ricordo dell’archeologo senese Becatti nel ’74 donò all’Università di Siena, e dovet­te vendere anche i suoi ultimi averi.
Con gli oggetti più cari si trasferì nella casa di riposo di Monte Cucco, dove trascorse i suoi ultimi giorni e morì il 24 gennaio del 1979.
Fu sepolta nella sua Ostia, nell’area cimiteriale di S. Ercolano, dove riposano i più grandi archeologi ostiensi, fra cui il suo terzo marito Guido Calza e Giovanni Becatti, che più di tutti la sostennero nei suoi studi.

LE OPERE DI RITRATTISTICA

Nel momento in cui la Calza intraprese gli studi archeologici, i suoi interessi si concentrarono sull’analisi della ritrattistica romana, acquisen­do in seguito alla lunga esperienza ostiense una inusuale “confidenza” con gli antichi abitanti della colonia romana. Ella era solita porre sulla sua scrivania le fotografie dei ritratti perché la loro fisionomia le risultasse familiare ed i volti divenissero noti. Quando raggiungeva la padronanza dell’opera oggetto di studio, stilava delle schede in francese, tedesco, russo ed italiano in cui la descriveva e l’identificava, compiendo i dovuti con-fronti con altre opere rappresentanti il medesimo soggetto (l’unica critica che le veniva mossa era la stringatezza delle citazioni bibliografiche, che per il suo modo di procedere non sentiva indispensabili). Fu questa dime­stichezza nel riconoscere i tratti caratteristici tanto delle varie epoche quanto dei differenti personaggi raffigurati, che la rese una collaboratrice indispensabile per gli altri studiosi sia nella stesura di cataloghi, sia nel risolvere controversie sull’attribuzione e sulla datazione di singoli pezzi.
Prima di occuparci più specificamente delle opere della Calza in questo campo, grazie alle quali divenne un punto di riferimento per gli studi con-temporanei e per quelli a venire, ripercorriamo brevemente nella scheda seguente le caratteristiche basilari dell’iconografia romana imperiale.

L’ICONOGRAFIA ROMANA IMPERIALE

Al linguaggio artistico della tarda repubblica, amante di forme asciutte e scabre, di un tagliente linearismo e di un realismo disa­dorno, in età augustea e giulio-claudia (31 a.C. – 68 d.C.) seguiro­no – non reagendovi ma modificandolo -, forme più morbide e sciolte, spesso di grande finezza, che temperavano il realismo repubblicano con una corrente di idealismo greco (6) -. Nel ritratto imperiale continuò la distinzione tra ritratto privato e ritratto ono­rario (ovvero pubblico e ufficiale). Il classicismo dell’età di Augusto, e la particolare situazione personale di questo imperatore, portarono a fondere i due aspetti del ritratto in un naturalismo oggettivo, che una sobria idealizzazione in senso neoclassico sollevava dalla sfera della realtà quotidiana.

Tale classicismo si prolungò durante il regno dei suoi successo­ri, irrigidendosi sotto Tiberio, per poi temperarsi e rinnovarsi a sua volta sotto gli imperatori giulio-claudi. L’età di Caligola, Claudio ed in parte Nerone fu un periodo di transizione che, rispetto alle forme classiche e corrette del periodo augusteo, cominciò a dar segni di interesse per forme meno definite, più mobili e vive.
Il nuovo stile ebbe la sua più gloriosa affermazione in età fla­via (69-96 d.C.) ed ebbe come caratteristica basilare la rappresen­tazione illusionistica dello spazio. Nel ritratto non interessavano più le masse plastiche ferme né la forma classica e gli elementi sal­damente coordinati, quanto la mobilità delle superfici e la ric­chezza del modellato su cui giocavano gli effetti di luce.
In età traianea (98-117 d.C.) si ebbe una svolta fondamentale nello svolgimento dell’arte romana, che investì anche il ritratto dell’imperatore, non più presentato sotto i due aspetti pubblico e privato. Le due istanze coincisero d’ora in poi in un aspetto unita-rio che rappresentava, per la prima volta nella cultura romana, l’e­quivalente di ciò che era stato il ritratto del dinasta nell’ellenismo.
Ma in conformità alla diversa origine del potere rispetto a quest’ultimo, nel ritratto dell’imperatore romano venne accentuata l’e­spressione dell’uomo abituato al coniando militare, nonché la sua energia e la sua decisione (7).
In età adrianea (117-138 d.C. (8) prevalse nuovamente il classici­smo neo-ellenistico, nonostante l’elemento di accentuazione psico­logica, favorito dal plasticismo pittorico dell’arte flavia, avesse con­tinuato ad animare i ritratti. Se il gusto lievemente impressionistico dell’età flavia aveva portato a rendere con leggere incisioni o lievis­simi rilievi taluni particolari precedentemente espressi con la poli­cromia – come le sopracciglia -, in quest’epoca anche per la pupilla non ci si accontentò più del colore, ma si preferì fissare lo sguardo incidendo plasticamente iride e pupilla, come già si faceva nelle ter­recotte dell’arte medio-italica e repubblicana. Inoltre il trapano fu sempre più impiegato per creare contrasti chiaroscurali, e per scom­porre le masse plastiche di capelli e barba in masse tormentate da luci ed ombre, contrastanti con le superfici lisce del volto.

Durante l’età antonina (138-192 d.C.) l’arte romana entrò in una fase stilistica nuova: questo periodo segnò il passaggio dalla composta plasticità classica al colorismo manieristico, dall’amore per la forma organicamente corretta a quella immediata, piegata ai fini decorativi ed espressivi, dall’astratto contenuto ideale ad un contenuto più umano, ora malinconico, ora cupo, ora tragico. Ma una nuova vera e propria svolta si ebbe in età severiana (197-235 d.C.). Essa fece parte di quel movimento artistico che avrebbe con-dotto l’arte del III secolo alla rottura della tradizione formale elle­nistica, del suo naturalismo, e della sua forma plastica legata alla coerenza organica. Tale rottura segnò l’inizio del periodo della cosiddetta tarda antichità e creò un linguaggio formale nuovo, che avrebbe trovato il suo sviluppo coerente sino all’età medievale.
Nella ritrattistica questa nuova visione formale produsse forme non più organicamente connesse tra loro, che rendevano con straordinaria vivezza la labilità del mutevole aspetto di un volto e, soprattutto, l’espressione del tormento interiore di un’epoca fra le più angosciate e contraddittorie della storia. Le novità formali consistettero essenzialmente in un abbandono del plasticismo elle­nistico, sostituito da una struttura fondamentale così semplificata da porre in evidenza i volumi che costruivano stereometricamente la testa ed il volto: agli effetti di contrasto fra le ricche chiome, le barbe profondamente incise e le lisce superfici del volto del ritrat­to dell’età precedente, subentrò un nuovo interesse per la massa unitaria della testa e una negazione della plasticità dei capelli. I particolari di capelli, barba e baffi furono impressionisticamente inseriti ad incisione, con brevi colpi a punta di scalpello e quasi di bulino; così come furono incise piuttosto che modellate le rughe sulla fronte ed intorno alla bocca, ricordando certa plastica del periodo repubblicano. Anche il ritratto infantile di questo tempo espresse la medesima sensazione di angoscia. Quello femminile, invece, mantenne più spesso la tradizione classicistica, limitando-si a rendere con freschezza le complicate acconciature dei capelli dalle quali, per confronto con le immagini delle Auguste sulle monete, fu possibile avanzare datazioni e talvolta identificazioni.
Sotto Gallieno (253-268 d.C.) si ebbe una breve reazione a que­sto gusto in favore di una riaffermazione del naturalismo delle forme, pur mantenendo l’interesse per l’accentuazione del conte­nuto psicologico.
Ma in età tetrarchica e costantiniana (284-337 d.C.) tale mag­giore solidità di forme si mutò in una certa brutalità di espres­sione ed in una talvolta estrema semplificazione. Il ritratto ripre­se il suo astrattismo formale e lo accentuò, avviandosi verso una rigida e severa simmetria, una sintesi geometrica, ed una rigida frontalità. Ciò fu dovuto solo in parte al prevalere di una corren­te artistica plebea (9), cui si unirono le influenze – non tanto formali, quanto ideologiche – provenienti dalla parte orientale dell’Impero. Esse furono accolte come un valido appoggio alla politica dinastica degli imperatori, in quanto spinsero il ritratto imperiale verso una fissità formale con la quale si intendeva esprimere l’essenza divina del regnante e la sua intangibile sacra­lità. In tal modo, il ritratto tornava sostanzialmente a farsi tipo-logico: l’immagine assoluta del sovrano, allontanandosi dalle caratteristiche fisiognomiche in cui era insito l’espressionismo individuale, le superava in un senso di ieratica austerità. Il ritrat­to dell’età post-costantiniana (337-V secolo d.C.) sembrò da una parte reagire alla geometrizzazione ed all’irrigidimento, ripie­gandosi verso forme più organiche ed espressioni di più natura-le eleganza, dall’altra cristallizzarsi maggiormente nelle pure sin-tesi geometriche che giunsero fino alle soglie dell’età bizantina.
In tale processo di astrazione, il ritratto tese ora a volumi sfe­roidali, ora ad eleganti e spirituali deformazioni di visi allungati. Il prevalere o il regredire del ritratto fisiognomico nel corso della tarda antichità non fu regolato soltanto da questioni di gusto formale, ma fu anch’esso intimamente legato alla sovrastruttura ideologica prevalente di volta in volta a seconda delle situazioni storiche. Nel ritratto privato prevalse l’ideale della spiritualità, seguendo il quale si affievolì l’elemento di verosimiglianza fisica, con il dissolversi dell’organicità anatomica e l’accentuarsi dell’e­spressività degli occhi (10)
Le prime esperienze della Calza nell’ambito della ritrattistica furono la sistemazione del Museo Ostiense, di cui si occupò nel 1947 – proseguendo l’opera del marito morto l’anno precedente-, e la catalogazione della colle­zione degli oggetti antichi della Galleria Borghese nel 1957 (11). Da questo momento in poi, per i successivi venti anni unico oggetto del suo interes­se fu Ostia, che analizzò sia dal punto di vista della topografia generale, con la stesura di diverse guide (fra cui una in collaborazione con Ernest Nash) (12), sia da quello a lei più congeniale della statuaria, occupandosi della sezione degli Scavi di Ostia dedicata ai ritratti.
Si trattava di due volumi (il numero dei pezzi era troppo elevato per essere contenuto in uno solo), il primo del 1964 ed il secondo del ’78, in cui furono catalogati ed illustrati i ritratti venuti alla luce fin dai primi scavi di Ostia (13). Nella prima parte furono analizzati i ritratti greci – copie ed ori­ginali – e romani privati ed ufficiali dall’età repubblicana a quella imperia­le fino alla morte di Antonino Pio (160 d.C.) (Fig. 30). La Calza vi illustrò i ritratti a tutto tondo e quelli riprodotti su sarcofagi, cippi sepolcrali e rilievi, prendendo in esame anche qualche pittura dal deciso carattere ritrattistico, senza tralasciare statue togate, loricate e busti acefali. Alla serie di ritratti pubblicati appartenevano non solo quelli conservati nel museo e nei magazzini locali, ma anche quelli di cui si era potuta accerta-re la provenienza locale, che però erano stati trasportati nel passato nei musei romani (Vaticano, Laterano, Museo delle Terme) oppure trasferiti all’estero. Tra le scoperte compiute dalla Calza, vanno segnalati tre ritratti di Domitilla Lucilla, madre di Marco Aurelio, una Faustina Minore ed un Lucio Vero fanciulli.
Il secondo volume, pubblicato un anno prima della morte della studio-sa, già colpita dalla lunga malattia che la immobilizzava impedendole anche di revisionare e perfezionare il proprio manoscritto per la stampa (lavoro affidato a Beatrice Palma), prendeva in esame i ritratti romani dal 160 circa alla metà del III secolo d.C.. Essi erano caratterizzati da una novità, in quanto molte di queste sculture non provenivano da scavi recen­ti, ma erano state rinvenute, insieme a frammenti vari, in cataste di marmi non scolpiti, ammassate in differenti punti del sito archeologico immedia­tamente prima della seconda guerra mondiale, al fine di nasconderle. Se ciò impedì di individuarne l’esatta località del rinvenimento, la provenien­za ostiense rimaneva comunque certa.
Il grande merito della Calza fu dunque di aver saputo rintracciare, con un lavoro paziente e minuzioso, i lunghi e tortuosi itinerari attraverso cui le sculture ostiensi provenienti dagli scavi del XVIII e XIX secolo passaro­no dalle collezioni gentilizie italiane e straniere ai musei, specialmente oltreoceano.
Al 1972 risale un suo trattato più generale, Iconografia Romana Imperiale. Da Carausio a Giuliano (287-363 d.C.)in cui analizzò la sezio­ne della ritrattistica che predilesse, quella tarda (Fig. 31).
In questo ambito la raccolta della documentazione iconografica risul­tava più problematica che per le epoche precedenti: i dati sicuri, accertati ed accettati dalla maggioranza degli studiosi erano pochissimi, sia poiché gli anni dell’età tardo-antica, da Diocleziano ai successori di Costantino, entrarono più recentemente nell’ambito delle ricerche storico-artistiche, sia poiché la produzione di ritratti si andava facendo in quell’epoca meno caratterizzante. Come abbiamo precedentemente accennato, in quegli anni la personalità individuale cedette sempre più al concetto simbolico‑rappresentativo dell’autorità imperiale, investita ormai di una “divina rnaiestas“che valeva più di ogni impronta individuale.
La Calza si avventurò con passione in questo terreno d’indagine deci­samente incerto (anche in condizioni di salute spesso precarie e supe­rando non poche difficoltà oggettive), valendosi della sua vastissima conoscenza dei materiali e della sua notevole capacità di intuito, che le permisero di riconoscere somiglianze e stabilire connessioni tra docu­menti a prima vista estranei l’uno all’altro. In tal modo ebbe l’occasione di presentare opere poco note o addirittura sconosciute, le cui attribu­zioni in molti casi non dovevano intendersi se non come proposte od ipo­tesi di lavoro. Infatti ella raccolse una larga serie di materiali che per motivi stilistici apparivano tali da collocarsi nello spazio di tempo da lei preso in considerazione, e su di essi tentò l’attribuzione iconografica, col risultato di raggiungere molte nuove proposte, ed anche alcune vere e proprie scoperte.
Esse si allineavano a quelle già da anni suggerite dalla Calza ed ormai universalmente accolte, quali l’identificazione del ritratto di Elena, madre di Costantino (Fig. 32), e quella del personaggio che compie i sacrifici ad Ercole ed Apollo nei tondi adrianei dell’Arco di Costantino, in cui ella ravvi­sò Costanzo Cloro, suffragando tale ipotesi con l’esame di numeroso mate­riale numismatico, scultoreo e con argomentazioni storiche (14)(Fig. 33).
Dopo quest’opera di più ampio respiro, nel 1976 la Calza tornò nuova-mente ad occuparsi della catalogazione di materiali scultorei restituiti da uno scavo, scrivendo la sezione sulle opere d’arte de La Villa di Massenzio sulla Via Appia (15).
Ancora una volta la vasta conoscenza delle collezioni romane e non, nonché la profonda esperienza delle sculture romane acquisita nei molti anni di attività ostiense, fecero sì che venisse designata per raccogliere il copioso materiale scultoreo rinvenuto in varie epoche nella zona, adope­rato dall’imperatore Massenzio (307-312 d.C.) per abbellire il territorio da lui espropriato. Nel contempo, lo studio topografico del complesso, rivelando la presenza di avanzi di costruzioni precedenti, confermò l’ipotesi che nel suo ambito fosse compresa quella che era stata la proprietà di Erode Attico (101-173 d.C.), il famoso Triopio.
Durante lo svolgersi delle faticose ricerche, le fu chiaro che la maggior parte delle sculture che adornavano la zona massenziana non fossero con-temporanee al circo od al palazzo dell’imperatore, ma che si trattasse di opere precedenti, appartenute probabilmente alla fastosa proprietà di Erode Attico, incorporata alla sua morte nel patrimonio imperiale fino ad essere ristrutturata e ampliata da Massenzio.
Nonostante l’abbandono della villa erodiana, all’inizio del IV secolo le sue ricchezze architettoniche dovettero rimanere in gran parte ancora intatte, tanto che il loro nuovo proprietario decise di riutilizzarle. Pertanto, la ricerca incluse alcune delle più notevoli sculture rinvenute sicuramente nella zona triopianea nel corso dei secoli, onde chiarire quale importanza avessero avuto nella sontuosa proprietà di Erode, celebre filosofo, mece­nate, alto funzionario e precettore di Marco Aurelio e Lucio Vero. In tal senso sembrò opportuno prendere in esame e chiarire il mistero che cir­condava il celebre sarcofago cosiddetto di Cecilia Metella, oggi nel cortile di Palazzo Farnese (Fig. 34), nonché la destinazione delle cinque cariatidi rinvenute in prossimità del sarcofago stesso.
La pertinenza di queste ultime al Triopio di Erode Attico era già stata supposta, ma fu considerata geniale e tutt’altro che infondata la nuova ipo­tesi della Calza che anche il sarcofago ne facesse parte, e precisamente che fosse collocato nel sepolcro – cenotafio eretto da Erode in onore della moglie Annia Regilla, seppellita in Grecia intorno al 161 d.C. ma onorata anche nella sua proprietà romana.
L’ultima fatica di Raissa Calza risale al 1977, quando curò il coordina-mento scientifico di Antichità ili Villa Doria Pamphilj (16)lavoro nato in occasione del passaggio allo Stato ed al Comune di Roma (1965-71) della Villa Doria Pamphilj e del parco annesso, sottratti in tal modo alla specu­lazione edilizia. Lo scopo era di rendere nota in modo unitario la collezio­ne delle antichità Doria Pamphilj, che a causa di svariate vicissitudini aveva subito continui smembramenti attraverso i secoli fino ai nostri gior­ni. L’opera si presentava articolata in diverse sezioni in cui venivano ana­lizzate statue; rilievi, are ed urne; sarcofagi; ritratti; elementi architettoni­ci e sculture moderne. Naturalmente la Calza si occupò soprattutto dei ritratti, nonché di alcuni sarcofagi e sculture moderne – tutti di provenien­za sconosciuta -.
Il lavoro si presentò subito molto complesso, in quanto prevedeva che si affrontasse un doppio ordine di problemi: mettere ordine nella com­plessa vicenda della costituzione e dello smembramento della collezione, per poi passare al riconoscimento ed alla catalogazione dei singoli pezzi.
Per quanto riguarda la nascita della collezione Pamphilj, nel suo nucleo principale essa fu legata alla creazione della villa, acquistata nel 1630 dal fratello del futuro papa Innocenzo X Pamphilo Pamphilj, e soprattutto alla decorazione architettonica dell’edificio di rappresentanza chiamato Casino del Belrespiro – con il quale oggi si identifica la villa stessa – (Fig. 35), costruito negli anni 1644-52. Essa si formò dunque nell’arco di circa 10 anni, con uno scopo soprattutto decorativo. Per prima cosa, gli studio-si coordinati dalla Calza ricostruirono il graduale formarsi della collezio­ne attraverso scavi, passaggi di proprietà per matrimoni o eredità, acqui­sti (nella maggior parte dei casi si trattò di acquisizioni da privati, da comunità religiose o da altre collezioni patrizie) (17). Si stabilì inoltre che, dopo innumerevoli vicende, il colpo finale inferto alla collezione dovesse essere individuato nel trasferimento di un numero notevole di opere dalla villa a Palazzo Doria Pamphilj, forse intorno al 1850.
Si passò così alla seconda fase, quella della vera e propria catalogazio­ne, che si presentò subito molto complessa per due motivi, il primo dei quali si doveva ricercare nella dispersiva disposizione delle sculture: rilie­vi ricavati da sarcofagi rivestivano le pareti esterne del Casino del Belrespiro, nicchie con statue e busti ne abbellivano l’interno, e molte sta-tue erano disposte nel giardino segreto e nell’esedra del teatro.
Ma a comportare le più gravi difficoltà nell’esame delle sculture fu il secondo motivo, che consisteva nel singolare modo in cui furono reimpie­gati i frammenti antichi, in quanto nel ‘600 era invalso l’uso di fondere rilievi con soggetti diversi in un’unica scena, ricavare da casse di sarcofagi lastre talora giustapposte una all’altra, associare pochi frammenti di statue differenti per crearne di nuove quasi del tutto secentesche. Ciò rese davve­ro poco agevole il compito di distinguerne le parti antiche e le loro diver-se datazioni, ma la Calza riuscì a portare a termine anche quest’ultimo sforzo, cui seguì di poco la morte.

OSTIA

L’incontro di Raissa Calza con Ostia, avvenuto nel 1937, segnò un punto di svolta nella sua vita. Ella, che fino ad allora aveva vissuto viaggiando attraverso l’Europa impegnata in cicli di conferenze nelle università di New York, Princeton, Londra ed in molte città italiane, per la prima volta trovò la stabilità decidendo di dedicarsi al lungo studio dell’apparato iconografi-co di questo sito archeologico, che in quel preciso periodo in seguito ad una particolare congiuntura politica si trovava al centro dell’attenzione.
Nella scheda seguente ripercorriamo brevemente la storia dei maggiori scavi ostiensi del ‘900, per comprendere in quale clima di euforia per le grandi scoperte visse la Calza in quegli anni. Ella fece parte di quel grup­po di studiosi che, man mano che gli scavi riportavano alla luce tasselli della sua storia, in prima persona analizzò quanto emerso dalla terra, chia­rendo per la prima volta le vicende della vita ostiense, e riuscendo a dissi-pare i dubbi che fino ad allora avevano avvolto le dinamiche dello sviluppo della città. Sebbene ciascuno nel proprio ambito di ricerca, ognuno di essi fece tesoro di tale “work in progress”, palestra insuperabile per acqui­sire la profonda perizia che ne caratterizzò le opere.

GLI SCAVI DEL 1938-42
Sebbene siano stati severamente criticati, gli scavi del 1938-42 in occasione dell’Esposizione Universale Roma (EUR), che si sarebbe dovuta tenere appunto a Roma nel ’42 se nel frattempo non fosse scoppiata la seconda guerra mondiale, ebbero in quegli anni una grande importanza per le scoperte che offrirono sia al mondo scientifico che al più vasto pubblico.
Le critiche mosse riguardavano la decisione di aver privilegia-to la quantità rispetto alla qualità, in quanto se da una parte si offrì un quadro sufficientemente completo di una città romana di età imperiale, dall’altra si palesarono tutti i difetti dell’archeologia ita­liana del tempo, con la messa in opera di un grande sterro piutto­sto che di uno scavo sistematico (18). In esso infatti furono asportati senza adeguata documentazione tutti gli strati di vita, di abbando­no e di crollo successivi ai primi decenni del II secolo d.C., miran­do a mettere in luce dovunque il livello adrianeo della città (19).
Altro settore molto criticamente giudicato fu quello del restau­ro, in cui si decise di ripristinare artificialmente in altezza grandi parti degli edifici ostiensi, compiendo reintegrazioni falsanti oggi inaccettabili, con il risultato di riprodurre scenograficamente le vestigia dell’antica città piuttosto che limitarsi ad apprezzarne quanto di originale fosse giunto fino a noi.
Bisogna però soffermarsi a comprendere quali motivi, che in parte li “scagionano”, spinsero il gruppo di valenti archeologi che diressero lo scavo a prendere simili decisioni: essi agirono in pieno regime fascista, che come noto per motivi propagandistici aveva l’interesse a porsi in relazione con l’impero romano, onde attesta-re l’antichità ed il prestigio delle proprie origini. Venne dunque loro richiesto di agire nel modo più solerte possibile, così da mostrare al mondo intero lo splendore delle testimonianze prove­nienti dal glorioso passato italiano, giusto in tempo perché risul­tassero il richiamo di punta di una vetrina internazionale quale l’Esposizione Universale del ’42.

È importante evidenziare la continuità che caratterizzò dagli inizi del `900 gli scavi di Ostia, proseguiti senza interruzione dal 1909 al 1938: continuità sia economica, garantita dai finanzia-menti elargiti dal governo italiano, sia tecnica e metodologica, assicurata dalle stesse finalità che accomunarono le direzioni di Dante Vaglieri prima (1909-13), e del suo discepolo Guido Calza poi (1914-42). Prima di loro era stato messo in luce ben poco del-l’area della città sepolta, e gli edifici dissotterrati si presentavano isolati nella loro discontinuità, tanto da non rendere individuabili né la planimetria né l’organismo urbano.
L’inizio di scavi regolari, sistematici e continuati si dovette dunque al Vaglieri. Il suo merito fu di aver considerato Ostia non più come un terreno di saggio archeologico da indagare saltuaria-mente nelle sue zone migliori, come più o meno avevano inteso tutti i suoi predecessori, ma come una vera e propria città da esplorarsi con sistematicità e cautela, rintracciandone la rete stra­dale, la successione delle epoche, e studiandone i singoli monu­menti ed edifici con ordine e compiutezza (20).
Su queste basi Guido Calza, futuro marito di Raissa, cominciò già nel 1914 i propri lavori ostiensi, proponendosi tre obiettivi fon­damentali:

  1. allargare lo sterro della città imperiale, approfittando di ogni indizio e di ogni area favorevole ad esplorazioni del sottosuolo (onde aggiungere ad una più larga visione dei monumenti impe­riali una più vasta conoscenza degli avanzi repubblicani);
  2. ricercare gli antichi confini della città imperiale e della città repubblicana ancora ignoti;
  3. tentare infine di risolvere il problema delle origini di Ostia col ritrovamento delle tracce della prima fondazione.

Ma tali obiettivi non si sarebbero amai potuti portare a termine in un lasso di tempo così breve, senza i quattro anni – dal 1938 al ’42 – di scavi intensificati per un avvenimento di carattere eccezio­nale quale l’Esposizione Universale di Ronfa in occasione del ven­tennale del regime fascista.

Il programma di scavo (21) del Calza prevedeva non la scoperta totale di Ostia, impossibile nello spazio di soli quattro anni, ma la maggiore valorizzazione della città antica riportando alla luce una superficie di circa 18 ettari di terreno, vale a dire più di quanto era stato messo in luce nei 29 anni dal 1909 al 1938.
Dal punto di vista topografico, lo scavo di tale zona fornì i seguenti notevoli risultati (22):

  1. il congiungimento di tutte le rovine parzialmente scoperte, eccetto il cosiddetto Palazzo Imperiale;
  2. l’intera messa in luce delle due massime arterie della città, il Decumano Massimo da Porta Romana a Porta Marina, e il Cardo Massimo da Porta Laurentina al Tevere con le costruzioni adiacenti;
  3. l’esplorazione di Ostia non solo sul lato settentrionale dal Decumano al Tevere, come era stata praticata fino ad allora, ma anche sul lato meridionale verso le mura, in una zona cioè ancora interamente ignota, raggiungendo i limiti della città sia dalla parte del mare (ovest) sia dalla parte di Laurentum (sud) così cia conse­guirne la più completa conoscenza topografica;
  4. la continuazione, dove fu possibile, dell’esplorazione del sot­tosuolo per la conoscenza della città repubblicana.

Tali scoperte non solo precisarono la topografia ostiense, ma fecero luce anche sulla dibattutissima questione delle origini e dello sviluppo di Ostia.
Infatti i risultati cui giunse Calza, primo fra tutti la scoperta avvenuta già nel 1914 di una porta (che poi si palesò essere la porta delcostino,), ad un centinaio di metri dal Foro, gli permise­ro di identificare le tre fasi in cui si sarebbe susseguita la storia di Ostia: la prima caratterizzata dalla creazione di una cittadella militare, la seconda dall’area racchiusa entro la cinta repubblica­na costruita intorno all’80 a.C., la terza dal superamento di queste mura verso il mare, databile circa all’età augustea:

  1. I1 primo nucleo di Ostia, la prima colonia di Roma, fu identi­ficato in un costruiul permanente solidamente fortificato con mura in opera quadrata di tufo, simili alla cinta di Roma stessa. Lo stu­dio del costruii! dimostrò che esso risaliva alla fine del IV secolo a.C. e che non era stato preceduto da alcuna altra stabile occupa­zione del terreno su cui sorse Ostia. La colonia, per la sua funzione storica, dapprima militare e poi commerciale, per la sua posizione e formazione, per le sue dimensioni e per le fortificazioni di cui era munita, si rivelava frutto intenzionale dei romani negli anni intor­no al 330 a.C., in cui essi vollero affermare anche la propria poten­za navale in un territorio di cui avevano già il saldo possesso. A que­sto periodo infatti rimandavano tanto il tipo ed il materiale (tufo di Fidene) in cui sono costruite le mura, quanto i frammenti cerami-ci emersi in seguito all’esplorazione del castruo!!. Ma col rapido aumentare della potenza di Roma e con la prima affermazione del suo dominio mediterraneo, tale piccola cittadella si rivelò insuffi­ciente anche come saldo presidio avanzato alla foce del Tevere, così fu ingrandita fino al confine stabilito dalla nuova cinta muraria costruita da Silla all’inizio del I secolo a.C..
  2. Anche questa seconda fase dello sviluppo ostiense fu chiari­ta dai nuovi scavi, che permisero di rinvenire monumenti di età sillana al di 1à del castrunì verso il mare. Alla conoscenza del nucleo primitivo di Ostia era bene accompagnare la ricerca della cinta di mura (il Vaglieri ne aveva scoperto breve tratto accanto a Porta Romana, giudicato di epoca sillana). Calza rintracciò l’inte­ro recinto di mura da Porta Romana all’antica spiaggia, stabilen­done l’identità di struttura, di materiale e di conseguenza di epoca con il tratto già chiarito. Le mura sillane, costruite in opus reticu­lntunl, circondavano la città con cinque lati congiunti ad angolo ottuso, ed in esse si aprivano tre porte turrite in opera quadrata: Porta Romana, Porta Laurentina e Porta Marina (23). Dunque, nel I secolo a.C. Ostia divenne una vera città estesa per 69 ettari di ter­reno, munita di tre porte, ripartita da strade ampie e regolari con al centro il Foro, con templi, magazzini, edifici di tufo, con una perfetta rete di fognature e con le sepolture situate al di fuori della cinta muraria.
  3. La terza fase indicava la vita vissuta sotto l’impero, che la rese il grande emporio commerciale di Roma. La prima constatazione desunta dai nuovi scavi fu che la creazione di un vero baci-no portuale alla foce del Tevere tanto sotto Claudio che sotto Traiano accrebbe l’importanza ostiense, invece di diminuirla. Infatti, solo dopo Costantino il ritmo della vita ostiense rallentò, e ad essa fu preferita Porto. Ma per i primi tre secoli dell’impero Ostia assolse da sola la sua funzione commerciale, accompagnata da una vitalità monumentale di cui la grande campagna del ’38-’42 mise in luce le testimonianze più cospicue.

 

Il Museo Ostiense

L’istituzione di un museo nel cuore delle rovine ostiensi fu un’idea di Pio IX, che nel 1865-66 incaricò P.E. Visconti della sua realizzazione. Egli cominciò così l’adattamento del quattrocentesco Casone del Sale, che rimase però allo stato iniziale (a questi anni risale solo la facciata neoclas­sica) (Fig. 36), avendo il governo italiano nel 1878 preferito trasferire 1‘Autiquarizuni Ostiense nella Rocca di Giulio II. Ma nel 1890 il direttore del nuovo Museo Nazionale Romano, inaugurato nel 1889, per ampliare subi­to la sua raccolta pensò di accrescerla con quella di Ostia: proprio in quel tempo non vi erano scavi in corso, così fu facile, nonostante qualche pro-testa, trasferire le opere nel museo romano, di cui la sezione ostiense rap-presentò un notevolissimo acquisto.

L’opera pontificia fu ripresa da Guido Calza – con il supporto dell’architet­to Italo Gismondi -, che ritenne necessario ampliare 1′Antiquarium, essendo aumentato notevolmente il numero di ritrovamenti di sculture ed oggetti minori in seguito alla ripresa degli scavi. Calza si accorse che il Castello – trop­po distante dal sito archeologico – non era visitato dallo stesso numero di avventori degli scavi, venendo meno al suo scopo essenziale, ossia di com­pletare la visione delle rovine con i prodotti artistici in esse rinvenuti.
Pertanto si preoccupò di trasferire nuovamente la collezione antiquaria sotto gli occhi di tutti i visitatori, in tre sale di nuova costruzione all’interno del Casone del Sale, al centro delle rovine. Così, conciliando le esigenze di spazio con criteri storici, scientifici ed estetici, e creando le sale con grande semplici­tà di linee e di forme per non turbare con uno stile troppo diverso l’insieme della costruzione neoclassica, nel 1934 sorse il nuovo Arztiquariurit Ostiense.
Negli anni a seguire fu elaborato il progetto di un nuovo museo che accogliesse anche i rinvenimenti del 1938-42, comprese le sculture trasfe­rite al Museo Nazionale Romano. Tale progetto era stato delineato dall’ar­chitetto Piacentini per conto della Direzione Tecnica della Esposizione Universale, tenendo conto della funzione primaria che un museo archeo­logico doveva assolvere: la presentazione nella miglior forma e nella migliore luce di tutto il materiale antiquario proveniente da un unico cen­tro. Ma la guerra e l’ancor più duro dopoguerra ne impedirono la costru­zione, cosicché i lavori si ridussero al solo ampliamento del museo esi­stente, inaugurato nel 1945. L’aggiunta alle sue tre sale di altri quattro nuovi ambienti (due per sculture, rilievi, pitture e mosaici, e due per una raccolta di disegni, piante, grafici ricostruttivi dei monumenti della città e del porto) permise finalmente di esporre tutto il materiale più importante messo in luce negli scavi vecchi e nuovi. Nel 1962 il museo subì nuovi cam­biamenti, sia con il completamento della trasformazione del Casone, sia con la costruzione all’esterno di un corpo ad esso strettamente legato. La realizzazione fu nuovamente affidata a Gismondi, che riuscì ad unire gli spazi costruiti in tempi diversi in un insieme armonico. Si portò così a compimento il progetto originario, che prevedeva appunto ampliamenti del vecchio fabbricato, di pari passo con il progredire delle scoperte.
Lo spazio pressoché raddoppiato consentì una ripartizione nuova e più coerente del materiale, nonché una disposizione sufficientemente chiara ed equilibrata. In alcune sale l’ordine delle sculture seguì a grandi linee la successione storico-artistica, in altri casi invece si preferì attenersi a crite­ri puramente antiquari, mantenendo uniti alcuni gruppi di carattere loca-le o di particolare importanza (24).

Guido Calza affidò lo studio dell’apparato iconografico ostiense alla sua valida assistente e futura moglie Raissa, che fin dal 1945, quando l’A17tiguarittm fu trasformato in Museo Ostiense, si occupò tanto della disposizione delle sculture e delle pitture – curandone soprattutto la selezione ed il restauro -, quanto dell’illustrazione della guida del museo (25).
Ella raccolse una serie accuratamente scelta di ritratti maschili e fem­minili (Fig. 37), di cittadini e di imperatori, attraverso cui si potesse riper-correre l’evolversi del gusto, dello stile, della religione, della moda e del costume di questa città dal I secolo a.C. al V d.C..
La sua intenzione era di rendere immediatamente chiaro fin dalla prima osservazione che tali opere d’arte ostiensi rappresentassero il gusto medio della classe commerciante borghese vissuta in questo centro, e che pertanto non ci si dovesse attendere in un simile contesto rari originali di maestri famosi, raffinate opere classiche od oggetti di gran pregio, come nelle collezioni romane pubbliche e private.
L’arte greca infatti fu largamente presente ad Ostia, ma in copie: il gusto della clientela locale fu maggiormente orientato verso le opere dell’elleni­smo – più corrispondente alle proprie tendenze artistiche -, non trascuran­do però prodotti decorativi delle officine neoattiche.
La disposizione della Calza permise inoltre di evidenziare la maggiore autonomia di cui al contrario sembrò godere l’arte romana, giungendo a creazioni originali e piene di vita specialmente nel soddisfare le commis­sioni di ritratti onorari o funebri. Infine, ella si impegnò affinché venisse riconosciuta la particolare rilevanza dell’interessante serie di rilievi con scene di arti e mestieri (Fig. 38), quadretti locali di genere che, nonostan­te il linguaggio più dimesso e popolaresco, avevano il pregio di riportare nel vivo della città antica con fresca vena narrativa.

 

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NOTE

(1) A. CARANDINI, Raissa e le statue, in D. FAGIOLI, Ricordando Raissa, Roma 1989, p. 24.

(2) “Sono nata in Russia nell’anno 1897” ricorda l’incipit della sua autobiografia I miei primi vent’anni, in D. FAGIOLI,Ricordando Raissa, Roma 1989. Secondo alcune testimonianze ella sarebbe invece nata nel 1899, ma secondo altre la data sarebbe frutto di uno scambio del numero finale, da un originario “4” al “9” tramandatoci, attuato nel richiedere un passaporto mentre era all’estero dopo la I guerra mondiale. In effetti tale tesi trova riscontro in molti documenti della Calza che riportano il 1894 come anno di nascita, tra cui la scheda con tutti i suoi dati stilata all’atto della sepoltura, conservata presso il cimitero di Ostia Antica dove ella riposa.

(3) Il padre amò tanto l’Italia che volle portare i suoi figli molto piccoli a Roma, perché le prime impressioni della loro vita fossero italiane.

(4) Secondo alcuni dopo la laurea fu per anni assistente del professor S. Reinach, ma in realtà non si conosce né l’oggetto della sua tesi, né addirittura se arrivò effettivamente a laurearsi, in quanto giunta in Italia non fu in grado di presentare alcun documento ufficiale – a suo dire andato perduto – che certificasse i suoi studi universitari, precludendosi una regolare carriera archeologica. In effetti non è del tutto inverosimile che per la russa, il cui stile di vita fino ad allora aveva previsto che fosse la servitù ad occuparsi di tali faccende burocratiche, risultasse inconcepibile prendersi l’incomodo di dover dimostrare la propria identità ed il proprio talento attraverso degli insignificanti incartamenti.

(5) Lo stesso De Chirico ricordò di essere stato molto colpito dalle illustrazioni dei manuali di studio di Raissa sull’architettura e la scultura greca, in particolare quello di Reinach, che gli avevano ispirato le immagini dei cavalli in riva al mare, le rovine ed i gladiatori che in quel periodo cominciarono a popolare i suoi quadri.

(6) Le premesse poste dal ritratto ellenistico trovarono così un magnifico svilup­po a Roma, dove profondi legami di carattere giuridico, oltre che religioso, continuarono a dare al ritratto una particolare importanza sociale per il carattere “storico” insito nell’arte romana, inteso come attualità e celebrazione politica (uno dei primi atti del princeps nell’assumere il potere era di inviare la propria effigie alle zecche monetarie provinciali – oltre naturalmente a quella di Roma -).

7) Questo tipo di ritratto fu creato in occasione del decennale di Traiano nel 107-108 d.C., ma ebbe successo anche negli anni seguenti, come dimostra il solenne ritratto di Ostia di età adrianea. Esso fissò un’immagine profondamente umana, ma anche indiscutibilmente autorevole, dell’imperatore Traiano, ripetuta in molte varianti sulla sua colonna onoraria.

(8) A partire dal periodo di Adriano e poi sotto gli Antonini ed i Severi, scultori greci non solo dell’Attica, ma particolarmente delle officine asiane – nelle quali si era sviluppata una straordinaria capacità tecnica – dovettero svolgere la loro attività a Roma, specialmente per i ritratti dei personaggi della corte imperiale. Ritratti eseguiti certamente ad Atene e nella cerchia di Erode Attico, il ricchissimo ispiratore della cultura del tempo, indicano chiaramente da dove mosse questa tendenza del gusto: in quest’epoca infatti i ritratti a Roma non si distinsero sostanzialmente più da quelli dei centri ellenizzati del Mediterraneo orientale.

(9) Non furono tanto le tendenze artistiche provinciali, come talvolta è stato affermato, a reagire in questo senso sul ritratto – anche ufficiale -, quanto il profondo mutamento sociale, che condusse al potere, affidando ad essi tutta la struttura statale, i ceti già subalterni dei coloni e dei militari, provenienti da famiglie di coloni e veterani, provinciali e non. Proprio questi ceti introdussero nella sfera ufficiale la tradizione artistica plebea, che era sempre esistita nella cultura romana accanto alla corrente ufficiale ellenizzante.

(10) Una chiara motivazione dello scomparire del ritratto fisiognomico, del riaffermarsi del suo aspetto tipologico e, infine, della rinuncia al ritratto ed alla scomparsa del ritratto anche puramente intenzionale, si trova in un passo di Paolino da Nota (morto agli inizi del V secolo): “Arrossisco di farmi dipingere così come sono” (nel mio reale aspetto di Adamo terrestre e peccatore), “non oso di farmi dipingere come non sono” (idealizzato in quell’aspetto spirituale che solo può avere validità di essere espresso).

(11) R. CALZA, Galleria Borghese. Collezione degli oggetti antichi, Catalogo del Gabinetto Fotografico Nazionale, 4, Roma 1957.

(12) R. CALZA, E. NASH, Ostia, Firenze 1959; R. CALZA, Ostia, Roma 1965. Nell’introduzione della prima scrisse: “Una delle maggiori attrattive di Ostia è la sensazione che da essa nasce, immediata e spontanea, la vita antica ” in R. CALZA, E. NASH, Ostia,Firenze 1959, p. 9.

(13) R. CALZA, Scavi di Ostia. I Ritratti parte I. Ritratti greci e romani fino al 160 circa d. C., vol. V, Roma 1964; R. CALZA, Scavi di Ostia. I Ritratti parte II. Ritratti romani dal 160 alla metri del III secolo d.C., vol. IX, Roma 1978.

(14) R. CALZA, Un problema di iconografia imperiale nell’arco di Costantino, in Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, vol. XXXII, Memorie, vol. XXXII, 1960, pp. 133-161.

(15) G. PISANI SARTORIO, R. CALZA, La Villa di Massenzio sulla via Appia. Il Palazzo – Le opere d’arte, Roma 1976.

(16) R. Calza, Antichità di Villa Doria Pamphilj, Roma 1977.

(17) Da tale studio emerse che pezzi antichi affluirono alla villa da Nettuno, Ostia e Porto, Tivoli e Villa Adriana, ma che la maggior parte dei marmi furono tratti da Roma stessa (l’origine rimase però ignota). In entrambi i casi, per essi venne utilizzata l’espressione “cavar marmi”, non si sa se per indicare l’estrazione del materiale o la ricerca di antichità. Infine, si dovette tener conto di altri pezzi, la cui origine era da ricercarsi nella stessa area della villa e del parco, in quanto provenivano dagli edifici sepolcrali romani di cui la zona è molto ricca.

(18) Al contrario, lo stesso Calza scrisse: “Lo scavo ostiense non si è limitato ad un semplice sterro o liberazione dei ruderi emergenti dalle macerie che ne impedivano la visione e lo studio, ma è stato un vero e proprio scavo archeologico, in cui non è mancato talvolta neppure lo scavo stratigrafico”.

(19) Secondo una metodologia rivendicata dallo stesso Calza, furono soppressi molti elementi edilizi delle ultime fasi di vita (tramezzature, rappezzi, ecc.), eliminando così molta della documentazione in grado di illuminare sulle caratteristiche della Ostia tardo-antica.

(20) Il suo programma consistette in primis nel completare lo scavo degli edifici precedentemente non messi del tutto in luce, come nel caso delle Terme di Nettuno e della Caserma dei Vigili; in secondo luogo nel congiungere i singoli gruppi di rovi-ne: egli scoprì infatti il Decumano Massimo, l’arteria principale di Ostia (per circa metà della sua originaria lunghezza dalla Porta Romana al Foro), su cui si riallacciarono le Terme, il Teatro, il Capitoliurni sul Foro (detto allora Tempio di Vulcano) e le case e le botteghe che lo fronteggiavano. Infine il Vaglieri fu il primo a voler ricercare lo sviluppo storico della colonia, associando allo scavo sistematico di Ostia imperiale l’esplorazione del sottosuolo per chiarire la storia di Ostia repubblicana. L’esito di tale ricerca fu la scoperta di un breve tratto delle mura di cinta di epoca sillana accanto alla Porta Romana, scoperta fino al suo livello più antico, al quale egli ascrisse il piano regolatore della città ed alcuni edifici tra cui i Quattro Tempietti, giungendo alla conclusione che tutti i resti ritrovati ad Ostia non potessero risalire nella migliore delle ipotesi a prima del III secolo a.C..

(21) Si trattò di un’impresa archeologica senza precedenti nella storia dell’archeologia italiana, sia per la disponibilità dei mezzi che per la vastità di esplorazione. La spesa complessiva fu, tra restauri e sterri, di circa sette milioni di lire di allora. Il preventivo delle terre e sfabbricini da asportare in tre anni era di circa mezzo milione di metri cubi che in realtà, a scavo ultimato, salirono a 600.000 metri cubi. Tutte queste terre furono scaricate al di fuori della città antica: una parte formò un nuovo argine del Tevere sul lato nord della città, un’altra parte fu trasportata in campi sabbiosi al di là della strada che collega Ostia a Fiumicino. Il rimanente materiale di risulta formò il rilevato proprio di tale strada panoramica poi intitola­ta a Guido Calza, che segue la linea dell’antico litorale ostiense e costeggia le rovine al di fuori delle mura sillane per un percorso di circa 1500 metri: fu risolto così lo spinoso problema comune ad ogni scavo, il gettito delle terre, che in precedenza il più delle volte gli antichi scavatori ostiensi avevano riversato sulle rovine stesse.

(22) Pubblicati in G. CALZA, Senni di Ostia. Topografia generale vol. I, Roma 1953. Desiderio del Calza fu che l’illustrazione di una così preziosa testimonianza archeologica, che gettava luce sui più vari campi della vita antica, dall’architettura all’ur­banistica, dalle arti figurative alla religione, dall’economia al commercio, non andasse dispersa in articoli e memorie varie, ma venisse raccolta in una serie di volumi dedicati ai vari aspetti archeologici, artistici e storici di questa città, a somi­glianza di quelli pubblicati dalle scuole straniere per i siti greci.

(23) La regolarità di alcuni cippi di travertino che conservavano un’arcaica iscrizione del pretore Caninio del principio del I secolo a.C. (contenente l’aggiudicazione al demanio dello Stato della zona fra il decumano ed il Tevere), resero certo il fatto che, come la fondazione, anche l’ampliamento di Ostia fosse il risultato di un piano regolatore ben definito, che tenne presente la funzione ormai commerciale del porto di Roma disciplinando il sorgere di monumenti pubblici e di edifici privati almeno in tutta la zona limitrofa al fiume.

(24) Quali le scenette di artigianato, le testimonianze di culti orientali e la raccol­ta di ritratti imperiali.

(25) R. CALZA, M. FLORIANI SQUARCIAPINO, Museo Ostiense, Roma 1962; R. CALZA, Museo Ostieuse. Nuove Immissioni, Ostia 1971.