Cenni biografici e testimonianze

[Da: Ranuccio Bianchi Bandinelli e il suo mondo, a cura di Marcello Barbanera, Bari, Edipuglia, 2000, pp. 432 segg.]

Le origini della famiglia Bianchi Bandinelli risalgono attor­no al Mille. Al ramo da cui discendeva Ranuccio appartenne il papa Alessandro III. Tra gli avi di un certo riguardo si distinse Giulio Ranuccio che ricoprì un ruolo di rilievo come prefetto del dipartimento dell’Ombrone durante il periodo napoleoni-co e che, Talleyrand di provincia, aveva mantenuto il suo po­tere dopo la restaurazione, diventando governatore di Siena. Nel sontuoso palazzo Bianchi in via Romana Giulio Ranuccio teneva memorabili feste e riceveva esponenti dell’aristocrazia senese.
Uno dei suoi figli, Mario, fu il committente del villino “Il Pavone”. Costui, di carattere opposto a quello del padre, schi­vo e disinteressato alla mondanità, aveva sposato una fanciulla “ignobile”, la borghese Teresa Regoli. La sua condotta gli valse l’epiteto di “giacobino” e l’estromissione dall’eredità. “Il Pavone” passò quindi al figlio Giulio. Il figlio di questi e di Maria de’ Vecchi, Mario, era un possidente a lungo impegna-to nell’amministrazione del Comune di Siena. Nel 1899 aveva sposato una giovane tedesca dai tratti delicati, Margherita Ot­tilie von Korn, detta Lily, figlia di Philipp von Korn, un sasso-ne della famiglia degli editori di Breslau, e di Rosa Arbesser, istitutrice viennese della principessa Margherita di Savoia e sua dama di corte dopo l’investitura reale.
Il 19 febbraio 1900 nasceva, da Mario e Lily, Ranuccio Bianchi Bandinelli. La scomparsa prematura della madre, av­venuta cinque anni dopo, ne segnò l’esistenza in maniera in-delebile trasformandone il ricordo nell’oggetto irraggiungibi­le di un desiderio d’amore inappagato. L’educazione del fan­ciullo fu oggetto di continui scontri tra il padre e la nonna ma-terna: Ranuccio venne affidato alle cure di un’istitutrice bava-rese, Josephine Perzl. Durante gli anni dell’infanzia e dell’a­dolescenza, fino all’età del ginnasio, gli fu impartita un’educa­zione privata che lo consegnò a una profonda solitudine alle­viata soltanto da molte letture.

«Se penso che quando nacque la mia prima figlia a Siena, la mia città, ancora si chiudevano le porte della città alle nove di sera, al suono del campanone. Grandi portoni di legno chiodato, con grossi verricelli di ferro battuto. Restava aperto un por­toncino per i pedoni fino a mezzanotte, poi si chiudeva anche quello. Per uscire, picchia picchia si arrivava a svegliare i gabel­lotti e a farsi aprire; ma per entrare era difficile che si degnasse­ro di sentire. Sicché, quando si avvicinò il tempo del parto, mio padre, che era stato sindaco per 18 anni, sia pure in età remo-te, concordò con i gabellotti un segnale convenzionale da bat­tere col grosso mazzapicchio di ferro, perché aprissero. Così, quando Maria cominciò a sentir le doglie, fu chiamato il medi-co condotto del rione fuori porta dove abitavamo. Stava a due passi e venne subito, con un forcipe immenso, tanto che si dovette cercare, per bollire il forcipe, in soffitto una gran pesciaiola non più usata da quando, morta mia madre, non si davano più i grandi pranzi. E poi, erano le due di notte, presi la strada, bussai nel modo convenuto, l’usciolino fu aperto subito. «Ci siamo ?» «Pare di sì» «Auguri» «Grazie» e poi un altro bel po’ di strada per chiamare a gran voce, dalla via deser­ta il vetturale Momo. Momo si affaccia alla finestra, «scendo subito», si veste e va, a due contrade di distanza, ad attaccare il cavallo. Poi sarebbe uscito da un’altra porta della città per pren­dere la levatrice e facendo il giro delle mura condurla fino a casa nostra. Io intanto, a passo affrettato, a suonare al portiere not-turno della pensione dove abitava l’illustre clinico e a cercare un’altra carrozza mentre lui si veste. Eccolo che scende, con la valigetta dei ferri, un largo cappello nero e indosso lo stiffelius (o finanziera che dir si voglia). Arriviamo a casa che son le 3 passate. Si partoriva in casa, allora, non in clinica, e noi, pur abi­tando una villa signorile con un gran parco, non avevamo il telefono. Era nel 1925; ma avrebbe potuto essere benissimo il 1825, se non fosse stato per la luce elettrica e l’acqua corrente (scaldata a legna)». [R. Bianchi Bandinelli, Dal Diario di un borghese e altri scritti, a cura di M. Barbanera, Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 356-357].

«La mite e sorridente figura di Antonio Minto fu una delle prime che il giovane laureato, che io ero all’inizio del 1924, incontrò pronta ad ascoltare i suoi progetti di studio […]. Riandrò dunque con la memoria a un tempo lontano, ma non rimpianto; quando assistetti alla nascita di quel Comitato Permanente per l’Etruria […]. Come prima iniziativa il Comitato […] si proponeva di pubblicare dei libri […] si trattava di anda­re in cerca di mezzi. Fu a questo scopo che Pericle Ducati, Giulio Quirino Giglioli, Antonio Minto, e Luigi Pernier scesero dal treno alla vecchia stazione di Siena, un bel mattino del Giugno 1925. Questi quattro signori di mezza età, due dei quali indos­savano giacchette di alpagas, non avevano l’aspetto di uomini usi a trattare affari [ … ] Attraverso mio padre, che era stato ammini­stratore di quell’Istituto [il Monte dei Paschi], io avevo condot­to dei sondaggi. In seguito ai quali, ecco scendere dal trenino Empoli-Siena, i tre professori delle cattedre di archeologia […]. Ed eccoli ricevuti dal direttore generale […] il banchiere, alquan­to divertito, rese omaggio al viver fuori del mondo, che gli appa­riva proprio dei veri studiosi, disse che il Monte dei Paschi […] avrebbe potuto dare […] un contributo a fondo perduto […]. Il ricordo di quella giornata si completa con l’immagine della cola­zione che facemmo tutti insieme a casa di mio padre, e che rive-do, come ricostruita in un film retrospettivo […] Si entrava nella sala da pranzo. Antichi mobili di legno scuro, ricchi di mensole, di volute e di intagli, le pareti coperte di un finto cuoio di Còrdova, gli ampi tendaggi rossi racchiudenti cortine trinate e insaldate, una grande pergamena con patenti di un antico sovra­no, e il silenzio del circostante giardino, rendevano il luogo rac­colto e austero. Là riuniti attorno al tavolo rotondo, sul quale pendeva una lumiera a corbeille con sirene in ceramica e fogliami veri, l’euforia dei quattro professori […] si attenuò in composto silenzio. Eravamo tutti imbarazzati. Gli ospiti, a causa della cor­nice che li accoglieva; io, aspirante futuro professore, per avere intorno a me i più autorevoli rappresentanti della scienza alla quale intendevo dedicare la mia vita futura […]» . [R.Bianchi Bandinelli, Un tempo lontano, in “Studi Etruschi”, s. II, a. XXIV, 1955-56, pp.XI-XIV].

Nel 1926 Ranuccio Bianchi Bandinelli parteci­pa al primo Convegno nazionale etrusco, tenu­to al Museo archeologico di Firenze dal 27 aprile al 4 maggio. La scelta di dedicare una settimana di studio alla storia della civiltà etru­sca conferma quanto i dibattiti e i problemi fos­sero progrediti e quanto fosse necessario porre ordine nella congerie della materia.
Il Convegno, organizzato dal Comitato perma­nente per l’Etruria, fu diviso in due sezioni, una scientifica e l’altra relativa alle attività pra­tiche. Nella prima furono discusse le vessate questioni dell’archeologia, della lingua e della religione etrusche; nella seconda vennero trat­tate le finalità del Comitato ovvero il coordina-mento delle attività delle varie istituzioni locali per la conoscenza e la conservazione del patri­monio archeologico della regione, la sistema­zione delle raccolte pubbliche, la viabilità delle zone archeologiche. Storici, filologi, archeolo­gi, geografi convennero da tutta Italia per con­frontarsi su questi temi. Fino a quel momento i cultori delle varie discipline avevano battuto la propria via senza preoccuparsi l’uno dell’altro. Ne era risultata una grande discrepanza di conoscenze sulle origini e sullo sviluppo della società etrusca.
Bianchi Bandinelli presentò il progetto della Carta Archeologica al 100.000 e una relazione dal titolo La posizione dell’Etruria nell’arte dell’Italia antica, in cui cercava di inquadrare la produzione artistica etrusca nel più ampio con-testo dell’arte antica italiana. I due interventi sono indizi delle direttrici su cui procedette la ricerca etruscologica di Bianchi Bandinelli: da un lato l’interesse topografico, dall’altro il tentativo di giungere alla definizione di teorie generali entro le quali interpretare l’arte etrusca.
Nella villa di Geggiano Bianchi Bandinelli portò a termine molti dei suoi scritti. Qui, lontano dagli impegni universitari, favorito dalla quiete del luogo e potendo contare sugli oltre 5000 volumi della sua biblioteca specializzata, prendevano forma mirabili saggi, rifiniti poi nelle biblioteche romane. Geggiano, parafrasando Pericle Ducati, professore di archeo­logia a Bologna, era dunque il luogo dove venivano elaborati i “veleni” scientifici. Si narra infatti che Ducati solesse tenere gli scritti di Bianchi Bandinelli chiusi in un armadietto, chia­mato “dei veleni”, per il contenuto venefico delle idee che vi scorrevano. Tali scritti erano accessibili soltanto agli studenti del 3° anno di Università, considerati ormai fuori dal perico­lo di essere contaminati dalle idee moderniste di qualche gio­vane archeologo sospetto di crocianesimo.