Ranuccio Bianchi Bandinelli

Parlare di Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo illustre, uomo vivo fino agli ultimi istanti, ancora intento, sul letto di morte, ai suoi studi, è per me una forma di autobiografia; ed è questo, non già l’antico affetto, che mi lega la penna e mi intorpidisce il sangue.
Eravamo nati nella stessa città, quella Siena che, fino alle soglie della seconda guerra mondiale, era rimasta chiusa in se stessa, nelle sue gelose tradizioni, fino a dare un senso quasi di soffocazione ad un giovane che non si accontentasse di quel treno di vita modesta e comoda, miope e ritardata. Ranuccio apparteneva alla classe più eletta, una famiglia che si radicava nell’alto Medioevo, altro che di agricoltori, come certa demagogia ha voluto farlo apparire. Un papa stava fra i suoi antenati, quell’Alessandro III che è illustrato da Spinello Aretino nella sala cui Balia del Palazzo Comunale di Siena. E da Alessandro III gli proveniva anche l’altro cognome di Paparoni, che egli per lo più non portava, ma che si ricollegava direttamente, come è chiaro nell’etimologia, al papato. Suo padre, un gentiluomo toscano di antico stampo, era stato sindaco di Siena per moltissimi anni, ed anche presidente del Circolo dei nobili. Una delle prime manifestazioni ribelli di Ranuccio fu di non volersi iscrivere a quel Circolo: già da allora, appena ventenne, amava mescolarsi agli artisti, sparuta compagnia a quel tempo a Siena, ma non oscura, se ci fu Federigo Tozzi.
Gli amici di Ranuccio erano tre scultori, Corsini e Papi e un altro Corsini: nessuno dello strato a cui apparteneva. Ma era cui uomo vivo, era un uomo giovane, e amava la compagnia delle donne. Per questo lo incontrai – io ero di alcuni anni più ragazzo di lui – a dei tè danzanti, anche se quasi non ballava, in casa del provveditore del Monte dei Pasciti, che, a suo modo, non era insensibile né alle arti né alle lettere. La differenza d’età fra di noi, a quegli albori giovanili, poteva rappresentare un ostacolo per far nascere un’amicizia: io ero un sedicenne, lui già laureato. Ma non impedì, invece, che nascesse un rapporto stretto fra di noi.
Per me era l’unico interlocutore, che potessi trovare a Siena. ma era anche un interlocutore ideale. Il fascino della sua conversazione., piana e di buon senso, colta senza essere pedante, era un fascino che, tutti che l’hanno conosciuto, hanno provato, in qualsiasi ambiente: dal circolo di famiglia all’Accademia dei Lincei. Così la mia prima gioventù si svolse alla sua ombra.
Abitava in una splendida villa alle porte di Siena. il Pavone, che ora, ironia della sorte, è un seminario. Ed era stato da lui che, per la prima volta, avevo sentito parlare di Croce. L’avvicinamento  a Croce fu una tappa molto importante nel suo sviluppo intellettuale. Come archeologo, nella formazione storico-scientifica della specialità, allora non ne avrebbe avuto bisogno. Bastava essere accurati, fare degli inventari precisi, non squilibrarsi in voli. Così era stato anche il suo primo lavoro, la monografia su Sovana, di cui fui un poco partecipe, perché l’accompagnai. giovanissimo, in quel luogo selvaggio e stupendo. In una settimana, per me memorabile: tutto il giorno a misurare tombe rupestri sparse in un paesaggio che sta fra l’Arcadia e Poussin, fra uno straordinario numero di rospi morti, e grossi lenti serpenti che si chiamavano pocciavacche, avendo il costume di attorcigliarsi intorno alle vacche e succhiarne amorevolmente il latte. Qualche fonte fresca di tanto in tanto, e soprattutto una, il Pischero, e rovine splendide della città medioevale. Si stava nell’unica casa disponibile, da un vecchio notabile che vi abitava con la famiglia: un vecchio torvo, in una situazione assai dubbia con la nuora. Ma il vecchio sentiva oscuramente il fascino della cultura. anche se quella cultura a lui veniva quale clandestino: e ci disse come, col piede, riusciva ad individuare le tombe. In quei giorni di vita maremmana, insieme dalla mattina alla sera, Ranuccio mi raccontava la sua giovane vita, di sua nonna, tedesca, che era dama di compagnia della regina Margherita. Per questo ogni tanto doveva andare a far visita alla Regina Madre, in quel suo salone ingombrato di poltrone e tavolinetti, dove bisognava, andandosene, procedere à reculons, per non voltare il tergo alla sovrana. “Guarda – gli disse mia volta – vai pure diritto, perché codesto vaso è già la terza volta che me l’hanno rovesciato.”
La grazia con cui raccontava questi episodi era incomparabile. Ma non c’era il minimo compiacimento né il minimo disprezzo. La vita era sempre degna di considerazione. Qui compariva il suo lato umanistico, che doveva diventare il filone fondamentale della sua esistenza.
L’incontro con la critica di Benedetto Croce, già fortemente sospetta all’insorgere del fascismo, aveva dato una sterzata decisiva e alla sua formazione di intellettuale e al suo carattere. Da quell’incontro doveva nascere il suo libro che è ancora il più importante, per lui e per la cultura italiana, quella Storicità dell’arte classica, che rappresentò il primo ingresso dell’idealismo nell’archeologia. la rottura delle acque di una disciplina rigidamente e anche miopemente storica.
La sua strada era senz’altro l’università: vi arrivò per tappe, di cui la prima fu a Groningen in Olanda. La sua perfetta conoscenza del tedesco gli permetteva di far lezioni in quella lingua, allora conosciuta da tutta la gente colta in Olanda. Poi venne la prima cattedra in Italia, a Cagliari. poi a Firenze. A questo punto venne la guerra, con quel che seguì.
Dopo l’8 settembre Ranuccio stava nella sua villa di Geggiano, dove aveva fatto un raduno di intellettuali ed ebrei perseguitati. Anch’io ero venuto via da Roma, rifugiandomi in campagna, a pochi chilometri da quella di Ranuccio. Allora si ricominciò a vedersi spessissimo. Andavo a piedi. passando per scorciatoie fra gli scopi, in quello straordinario e fatale autunno. E arrivato là, era un po’ come trovare il Limbo dantesco, con tante persone illustri che facevano la vita d’ozio forzato quasi settecentesca ma sempre sotto la spada di Darmele di una razzia tedesca. Lassù a Geggiano c’era anche Umberto Saba, che restava sempre, anche in quella condizione di continuo sospetto e pericolo, sereno e limpidamente poeta. Era davvero mia atmosfera incredibile, perché naturalmente tutti lo sapevano, di quel raduno clandestino; e solo il prestigio di Ranuccio riuscì ad evitare una terribile retata.
Poi si sa cosa avvenne.
Allo scadere della guerra, Ranuccio aveva snaturato i suoi propositi politici. Quello che era accaduto assomigliava ad una maturazione accelerata. Il giovane conte che non aveva voluto iscriversi al Circolo dei nobili diveniva comunista. Il piacere di sorprendere fu sempre uno dei lati del carattere di Ranuccio, sorprendere fino allo scandalo; ma le sue convinzioni erano sincere. Il suo umanesimo, sotto forma di un illuminismo moderno, l’aveva portato dall’idealismo di Croce al marxismo.
Ma in realtà non fu mai un politicante, e, anche quando assunse, per dovere di studioso non certo per amore burocratico, la carica di direttore generale delle Antichità e Belle Arti, fu un funzionario irreprensibile, non di parte. Era solo dalla parte del patrimonio artistico italiano: e alcuni suoi atti, di esemplare severità amministrativa, come l’allontanamento di due sopraintendenti impelagati nel commercio, rimangono, ahimè, unici nella storia.
Ma presto doveva stufarsi dell’ambiente soffocante del ministero. E se ne tornò all’università, ricominciando da capo, a Cagliari: esempio anche questo di probità e di fedeltà a se stesso.
Da allora, per forza di cose e di idee, ci si vide meno. Ma c’era stata un’intensa collaborazione poco prima, al tempo degli inizi della «Critica d’arte», che aveva visto congiunti Longhi e Bianchi Bandinelli, in un trio che si rivelò impossibile con Ragghianti. La «Critica d’arte» è stata un momento cruciale per la storia dell’arte antica e moderna. Mi onoro di essere stato tanto spesso su quelle pagine. Ma appunto fu un breve sogno. Dopo, Ranuccio, doveva fondare «Società», più vicina ormai al corso delle sue idee.
Il resto è storia recente. La sua attività si è accresciuta, invece di flettere. È morto con la penna in mano. Come Proust, come quel profondo e storico e critico che era. Possa la sua città onorarlo in modo non transitorio: ne è stato un figlio degnissimo di duratura memoria.
[1975]